FUOCOAMMARE – il dramma dei migranti

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Un film di Gianfranco Rosi, uscito il 18 febbraio e subito premiato con l’ Orso d’Oro alla 66° edizione del Festival di Berlino come miglior film.Oltre ad avere avuto quattro nomination al David di Donatello, ha vinto anche il premio come miglior montaggio andato a Jacopo Quadri al Bari International Film Festival.

Dopo le prime presentazioni avvenute in febbraio all’indomani dell’uscita del film, Fuocoammare tra aprile e maggio sarà proiettato in diverse sale italiane. Questo film documentario, rispecchia la cifra stilistica di  Gianfranco Rosi , fatta  di narrazione diretta senza sovrastrutture o effetti speciali, preceduta da un lungo lavoro di preparazione, ambientazione e vivendo per più di un anno sull’isola, come lo stesso regista ha raccontato in diverse interviste.

Non voleva raccontare il dramma dei migranti, quello che scuote e divide l’Europa come un fatto sensazionalistico, non voleva un reportage fatto d’immagini scioccanti ma entrare nel quotidiano dell’isola e dei suoi abitanti fino a rendersi invisibile ai loro occhi per poi cominciare a girare. Sceglie di ambientarlo in inverno, quando l’isola è più quieta e inquieta allo stesso tempo.

E il primo fotogramma parte proprio su un promontorio roccioso dell’isola sferzata dal vento, dove Samuele ragazzino sveglio e scaltro, dall’occhio pigro è intento a costruire la sua fionda, con la quale si diletta in gare di tiro con il suo compagno di giochi dopo la scuola.

Lo scorrere delle sue giornate è riempito dai racconti della nonna e del papà, Samuele come la maggior parte degli isolani, segue una vita fatta di cose semplici, abitudini quotidiane scandite dal ritmo della pesca. Agli occhi di noi cittadini metropolitani che lo guardiamo, sembra  raccontare un’Italia di provincia di quarant’anni fa, il cui ritmo è scandito dall’unica radio dell’isola che manda canzoni dialettali, e tra una dedica e l’altra arriva “Fuocoammare” brano che conquista il regista tale da farne il titolo del film.

         Chi focu a mmari ca c’è stasira”

Questo è l’unico verso del brano di cui si ha memoria, di cui solo le musiche si sono salvate, tale da farne un canto popolare; qualcuno racconta che parlava del bombardamento di una nave militare durante la seconda guerra mondiale avvenuto nel porto di Lampedusa.

La vita degli isolani è continuamente alternata nel film con lo sbarco dei profughi che in questo lembo d’Italia e ultimo confine d’Europa, da oltre vent’anni avvengono ripetutamente. Sbarchi che il regista propone fedelmente e senza filtri all’attenzione dello spettatore, e di giorno o di notte i messaggi che arrivano sono questi:

 

                                                                                  Ci aiutate? Stiamo affondando! 

       How many people? Your position?

Una voce femminile chiede aiuto in inglese via radio da un posto imprecisato del Mediterraneo, un ufficiale italiano risponde chiedendo la loro posizione e da lì a poco, scatta la macchina dei soccorsi.

Saranno salvati, ove possibile, schedati e come da trent’anni a questa parte il dottor Pietro Bartolo che si occupa degli isolani e anche dei migranti,  farà un primo check up degli sbarcati. Colpiscono le sue parole fatte di una semplicità e umanità disarmante, quella di chi nonostante ne ha viste di ogni, non nasconde la sua rabbia, sconforto e dolore ogni qualvolta si trova a contarne i cadaveri e fare le dovute e dolorose autopsie come racconta nel film. Sì, perché (indicando una foto sul suo computer) dice:

 “ Non ci si abitua mai, ricordo ancora quando ne arrivarono 840, erano divisi in classi come più tardi scoprì. Vedete quelli sopra erano di prima classe e avevano pagato 1200 euro, poi c’era una seconda in questi oblò e avevano pagato 1000 euro, e sotto nella stiva che qui non si vedono, quelli di terza classe, che avevano pagato 800 euro. Spesso proprio questi sono pieni di ustioni che non andranno mai via, complicate da guarire, dovute a un mix di acqua e carburante. Un uomo se tale si ritiene, non può non aiutarli”.

E cosi che la narrazione talmente fedele alla realtà, non riesce forse o volutamente a dare maggiore enfasi, perché è talmente orribile la realtà che si trova costretto a filmare Gianfranco Rosi – specie quando le immagini rimandano a donne, bambini, uomini infreddoliti, feriti, disidrati, in lacrime, a cadaveri ammassati in una stiva – immagini vere e non frutto di finzione scenica.

Un film la cui visione, lascia gli spettatori anche fuori dalla sala, senza parole e con pareri contrastanti. Chi si aspettava il “the end” rimane deluso.

Come si può cercare un fine a questo film, se la tragedia è ancora in atto?

E loro, i fortunati, quelli che si sono salvati cantano una sorta di spiritual, ricordando quella degli schiavi negri deportati nelle Americhe. E a ben riflettere le analogie ci sono e si ripetono, venduti dai mercanti come manodopera da utilizzare oltreoceano un tempo; ora comprano la loro agognata libertà pagando i mercanti della morte.

“Non potevamo restare in Nigeria. Molti morivano, c’erano i bombardamenti. Ci bombardavano e siamo scappati dalla Nigeria, siamo scappati nel deserto, nel deserto del Sahara, molti sono morti.

 Nel deserto del Sahara molti sono morti. Sono stati uccisi, stuprati. Non potevamo restare. Siamo scappati in Libia. E in Libia c’era l’ISIS e non potevamo rimanere. Abbiamo pianto in ginocchio: ‘Cosa faremo?“.

foto :fonte facebook

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