L’Angola raccontata da uno Street photographer

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Un reportage fotografico per parlare dell’Angola, uno stato dell’Africa centrale attraversato da colonizzazioni, guerre e vita che arranca ogni giorno. Un racconto della sua storia, di chi la osserva, attraverso gli scatti e gli sguardi incontrati.

Oggi l’Angola è una repubblica indipendente, ma la sua storia è tracciata da: colonizzazioni come quella dei portoghesi, dalla tratta degli schiavi verso il Brasile, e in epoche successive ma recenti, da guerre come quella d’indipendenza che ha devastato il Paese tra il 1961 e il 1974 per poi sfociare in guerra civile tra il 1975 e il 2002.

Dopo circa quarant’anni di guerre, da circa dieci anni vive un periodo di pace, e dal 1979 ha come presidente Josè Edaurdo Dos Santos. In un paese del genere, ricco di risorse energetiche, i principali partner economici come la Cina concludono accordi importanti per il loro sfruttamento, inviando in cambio operai per la costruzione di infrastrutture; ciò ha permesso, grazie anche a ingenti quantità di denaro ricevuti, di avere il più alto tasso di crescita fra i paesi africani degli ultimi anni. Tuttavia l’Angola non è certo una meta per vacanzieri, e per lavoro vi arriva nel 2013 anche Peppe Di Donato, street photographer per passione. Resta lì a lungo, dunque: come sopravvivere al quotidiano, scandito solo da ritmi lavorativi, in un Paese cosi provato da guerre? Da qualche anno prima aveva iniziato a fotografare, forse per imprimere oltre che nella mente, anche in una foto i luoghi del mondo che attraversava per lavoro. Con le sue parole vogliamo raccontarvi questa galleria fotografica dal titolo: Someone..somewhere e il video Ambriz’s Surrounding.

Queste foto sono state scattate in Angola, non proprio una meta turistica; che anno era e perché era lì?

Direi proprio di no, basti pensare ai mesi che sono necessari per ottenere il visto di ingresso. Ero lì tra il 2013 fino a metà 2014 per conto di una nota compagnia italiana del settore oil and gas che da pochi anni aveva riavviato un yard in Ambriz.

Lei è un fotografo per passione, cosi ama definirsi, più precisamente uno Street photographer; si sceglie di esserlo o sono le strade e ciò che vi circola a scegliere lei?

Non sono e non mi interessa essere un professionista della fotografia. Potessi dare un consiglio suggerirei di farlo come se fosse un hobby, ma per qualunque cosa in genere, sono quelle che riescono meglio. Credo che si scelga di fare Street photography così come potrebbero scegliersi tante altre categorie: naturalistica, paesaggistica, macro, moda e così tante altre. Dipende dai gusti, dal percorso formativo e da ciò che si vuole comunicare.

Di queste strade privilegia le persone, i volti, meno i monumenti o la natura in genere, è così?

Si è così. Generalmente, la Street photography documenta emozioni, relazioni, eventi quotidiani in cui gli esseri umani sono protagonisti. È quello che cerco di comunicare con i miei scatti. Raro che scatti in un contesto nel quale non è presente l’uomo.

In questa raccolta fotografica ci sono prevalentemente bambini. Fotografare persone, non deve essere facile, bambini men che meno, se poi parliamo di un Paese del Centro Africa, come l’Angola, significa avvicinarsi a persone che non conoscono la pace, ma solo la guerra, e con tutti i traumi derivanti da essa. Cosa vi ha messo in comunicazione: un gesto, una parola, un sorriso?

Per lo più si tratta di scatti “rubati” con un medio teleobiettivo. Difficile fotografare con un 35 mm a focali fissa, lì c’è ancora la credenza, almeno nei villaggi più interni, che fotografare una persona equivalga a rubarle l’anima.

Le foto sono scattate in momenti di vita quotidiana, il mercato della frutta, del pesce, come vediamo anche nel video Ambriz’s Surrounding, le zone più popolose e povere di Luanda, o si è spostato anche nei villaggi limitrofi?

Certo, alcune foto sono state scattate in villaggi vicino ad Ambriz, ma appartenenti alla stessa municipalità per evitare il controllo, sempre problematico dei check point militari.

Strade polverose o inesistenti, temperature alte, costruzione che miracolosamente si tengono in piedi, una precarietà di vita eppure tutto scorre, tracce di vita e semplicità che impattano a chi le guarda da uno schermo e a chi scatta queste foto?

Per chi non fa il reporter di professione, sono scene che non possono che provocare commozione e sgomento al primo impatto, difficile dimenticare, altrettanto abituarsi.

Quanto sono diversi e/o quanto hanno in comune i bambini angolani da quelli europei/italiani?

I bambini sono tutti uguali: sorridono tutti allo stesso modo. Lì giocano ancora come giocavamo noi che oggi abbiamo 50 e passa e con poco! In questo forse sono diversi, più fortunati.

Cosa ricorda di questa esperienza, cosa le ha lasciato?

La consapevolezza che puoi rinunciare a tutto ciò che normalmente ritieni indispensabile nel tuo quotidiano e sorridere nonostante tutto. I primi tempi sono stati durissimi, poi ci si abitua.

Fotografa in bianco e nero, quasi sempre, perché?

Semplicemente perché non so fotografare a colori! Scherzi a parte, preferisco la fotografia in bianco e nero sia per il maggiore impatto che per la flessibilità del trattamento. È meno descrittiva ma più libera di essere interpretata.

Pensa mai a questi volti?

Si, molto. Quei volti rappresentano un po’ anche me o almeno quello che ero in quel periodo.

Tornerebbe in Angola?

Decisamente sì, ho lasciato tanti amici lì, mi farebbe piacere un giorno poterli riabbracciare.

Ha altri progetti fotografici come questi o ne farà in futuro?

Si, ho realizzato di recente: Loro di Napoli e Scatto alla risposta.

foto e video: Peppe Di Donato

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