Espresso Napoletano

“A morte e subbeto”, la morte nei detti napoletani

Pubblicato da
Maria Pia Nocerino
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Ci avviciniamo al giorno della “Commemorazione dei Defunti”. E’ notorio che a Napoli la Commemorazione dei Defunti avviene tutto l’anno. I napoletani hanno un rapporto davvero particolare con la morte. Ne è prova il Cimitero delle Fontanelle dove da sempre – e ancora oggi – alcuni napoletani vi si recano per prendersi cura delle cosiddette “capuzzelle” o “anime pezzentelle” in cambio di segni che vengono interpretati come veri e propri consigli.

Il culto delle capuzzelle o anime pezzentelle

“Le capuzzelle” non sono solo nel cimitero delle Fontanelle, ma anche in altri sotterranei della città come quelli della chiesa seicentesca del Purgatorio ad Arco in via dei Tribunali, della Basilica di San Pietro ad Aram e presso le catacombe paleocristiane di San Gaudioso alla Sanità.

Una delle capuzzelle che desta maggiore curiosità è sicuramente “quella con le orecchie” custodita nella piccola chiesa di Santa Luciella situata a San Biagio dei Librai, nel centro storico di Napoli. E’ una delle “capuzzelle” più pregate perchè avendo “le orecchie” (in realtà si tratta di distaccamenti delle pareti laterali del cranio)  viene considerata più pronta ad ascoltare le preghiere, le richieste rivolte dai napoletani.

Il teschio “con le orecchie” è stato oggetto di studio a lungo. Secondo i ricercatori non si tratta di orecchie e quindi di cartilagini mummificate, m,a di distaccamenti laterali del cranio che però avrebbero dovuto decomporsi in pochi anni. Invece, “le orecchie” della capuzzella sono rimaste lì nonostante siano trascorsi oltre 400 anni (il teschio pare risalga al 1600).

Oltre al culto delle anime pezzentelle, anche i versi della famosa Livella di Totò sono una chiara testimonianza del modo di intendere la morte a Napoli.

LEGGI: QUI E’ NATA LA LIVELLA DI TOTO’

La morte nei detti napoletani

Ci siamo già occupati di uno dei modi di dire che riprende proprio il legame speciale che, a Napoli viene ad instaurarsi tra vivi e morti. Il detto è  “Chi è muort e l’ha rimast ritt?” (“Chi prima di morire lo ha stabilito?).

Ma a Napoli alla morte sono legati tantissimi modi di dire a partire da “A morte e subbeto” che si usa per dire che una cosa dev’essere fatta immediatamente, con molta fretta.

A casa mia ho sentito dire spesso “Mentre ‘o miedeco sturéa, ‘o malato se trov muort” (Mentre il medico studia, il malato muore) che è un modo per dire che certe cose non vanno rimandate, occorre farle subito. Si distingue da “A morte e subbeto” perchè in questo caso se non si compie subito l’azione non c’è più alcuna possibilità. Nel secondo caso, invece, quando il medico “perde tempo” a studiare, sussiste una remota possibilità che il malato si possa salvare, una chance.

E ancora: “Je torno d’ ‘o muorto e vuje dicite ch’ è vivo!” (Torno dal funerale, dalla casa del morto. Non potete dire che è vivo) si usa quando in una discussione ci sono due opinioni contrastanti e uno dei due è certo di quel che dice.

Dal punto di vista economico  ‘A morte a chi acconcia e a chi scònceca” (La morte favorisce taluni e danneggia altri)  e ancora A ppavà e a mmurì, quanno cchiù tarde è possibile”  (Due cose da rimandare sempre: pagare e morire).

Il dolore per la perdita dei propri cari lo ritroviamo in ” ‘A morte nun tene creanza” (La morte non ha educazione). La morte arriva senza preavviso, quando meno te lo aspetti. Non chiede il permesso. Bussa alla porta e porta via qualcuno.

Ma siamo a Napoli e non possiamo terminare con una delle tante filosofie di Pulcinella:  “Meglio murí sazzio ca campà diúno” (Meglio morire sazio, che vivere digiuno).

A domenica prossima!

 

 

 

 

 

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