L’incontro con Gerlando Gatto

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Gerlando Gatto con il suo potere di sintesi e concretezza offre uno sguardo preciso sul jazz, attraverso le sue parole e le interviste del suo ultimo libro Gente di jazz.

A Napoli per la presentazione del suo libro di interviste ‘Gente di jazz’ edito dalla Euritmica/Kappavu, abbiamo colto l’occasione di porre qualche domanda a Gerlando Gatto, giornalista professionista, che continua a coltivare la passione per la musica jazz che lo accompagna sin da giovanissimo, occupandosene da oltre quarant’anni.

Gerlando Gatto ha collaborato con diversi quotidiani e riviste (Blu JazzJazzJazz , blues & around) e ha scritto e condotto molti programmi jazz trasmessi soprattutto da RadioUno e Rai International, partecipando in qualità di critico musicale alla trasmissione televisiva Videndo parlando di Sat 2000, inoltre è stato uno degli autori della Enciclopedia del Jazz edita dalla Curcio.

Nella scelta delle interviste per il libro c’è qualche esclusione diciamo forzata per esigenze editoriali?

Purtroppo sì. All’ultimo momento c’è stata una esclusione per motivi di spazio, che poi mi è costata una delle pochissime critiche che mi hanno fatto cioè che non ci sono interviste a donne, quella di Tiziana Ghiglioni.

Può dire qual è stata l’intervista più bella che ha fatto? O quella che le ha lasciato qualcosa in particolare?

Rispondere a questa domanda è difficile, una sola no, ce ne sono tante. C’è quella con Michael Petrucciani, che era un personaggio molto particolare, c’è quella con Gonzalo Rubacalba, con Maurizio Gianmarco che è stato il primo musicista che ho conosciuto quando sono emigrato dalla Sicilia arrivando a Roma. Mino Cinelu l’ho intervistato nel 1992 in Martinica, poi dopo tanti anni ha suonato questa estate a Roma con Rita Marcotulli, siamo andati a sentirlo io e mia moglie e ci ponevamo il dubbio se mi avesse riconosciuto o meno. Mia moglie diceva di no mentre io ricordando le belle giornate trascorse insieme pensavo si potesse ricordare qualcosa. Quando siamo arrivati lì avevano finito il sound check, lui dall’altra parte del grande palco del festival jazz mi ha visto ed ha detto: ‘Quanto tempo!’.

Dei rapporti umani che si instaurano lei l’ha scritto sul suo blog, aggiungendo che durante le interviste cerca la persona al di là del musicista.

Sì perché poi sono tutti musicisti famosi, che bene o male sono stati intervistai da tutti, quale può essere un minimo di valore aggiunto che posso portare con il mio lavoro se non quello di cercare di far scoprire ai lettori qualcosa in più non sul personaggio ma sull’uomo.

Anche se ha incontrati moltissimi musicisti in questi decenni, ha ancora una intervista nel cassetto? Cioè qualcuno che vorrebbe intervistare e che per qualche motivo non è riuscito ancora ad incontrare?

Ci sono molti che avrei voluto intervistare che non posso più intervistare, purtroppo.

Qual è il fine di questo libro: far conoscere jazzisti attraverso le sue interviste o fare un punto sul jazz?

Ambedue le cose, nel senso che siccome le interviste ricoprono un arco di tempo molto vasto, che va dal 1982 ad oggi, se si legge tutto il libro con le interviste si vedrà come alcuni temi sono ricorrenti, per cui ci sono delle risposte che variano o rimangono uguali nonostante siano passati tanti anni. Si può avere un’idea di quella che era e che è la situazione del jazz, si può avere quella che era e che è la situazione dei musicisti di jazz.

A proposito di jazz, lei come memoria storica, ha potuto assistere alla storia del jazz in Italia. Cosa riscontra rispetto al passato: a parte una maggiore attenzione, ma quali problematiche sono ancora presenti, specie per i musicisti?

Le problematiche sono due: la prima è che oggi, come ieri, i musicisti se dovessero vivere suonando solo jazz non potrebbero vivere, ce la fanno grazie alle scuole di musica ed all’insegnamento. Il secondo problema è che paradossalmente mentre il jazz italiano come qualità si è enormemente evoluto nel corso degli ultimi decenni, l’attenzione da parte degli organi di stampa è venuta meno in maniera drammatica: la RAI non trasmette più niente, né in radio né in televisione, le altre televisioni manco a parlarne, i grandi quotidiani si limitano agli annunci, per giunta quando c’è qualche personaggio di primissimo piano, le recensioni dei dischi e dei concerti sono scomparse. C’è una situazione drammatica.

A proposito dell’editoria ed il jazz, in questi anni c’è un fiorire di pubblicazioni da parte di musicisti, giornalisti, critici, ecc. E’ sempre oro quel che luccica?

No. Qui c’è un altro grosso equivoco. Io sono giornalista professionista, perché nella mia vita sono vissuto facendo il giornalista e non di musica perché se avessi fatto il giornalista di musica sarei morto di fame. Ero specializzato in economia, quindi sono vissuto facendo il giornalista economico. In Italia per essere giornalista c’è tutta una prassi ben precisa, invece oggi basta scrivere due sciocchezze che ci si dice giornalista, ma che tipo di giornalista si è? Pubblicista, professionista? Spesso rispondono: Sai io scrivo. Non basta scrivere per essere giornalista.

Tra le nuove generazioni di musicisti c’è anche chi compone. Secondo lei si è giunti al sogno dei jazzisti che hanno fatto la storia, che auspicavano l’evoluzione di questo genere di musica?

Secondo me il jazz nasce come musica contaminata, dalla fusione cioè di più elementi, si sta dilatando, non lo ritengo né un bene né un male, doveva accadere, non si sa dove porterà, ma non credo siamo arrivati al punto finale.

Quanto ancora si può spingere?

Infinitamente.

Quello che ascoltiamo è un jazz evoluto?

Non è tanto una definizione di quello che ascoltiamo, ma o c’è buona musica o non è buona musica.

Nota:

Durante la presentazione del libro, con ospite Antonio Onorato che ha proposto alcuni brani musicali, abbiamo strappato sia a Gerlando Gatto che all’editore Giancarlo Velliscig (direttore artistico di Udin&Jazz) la promessa del sequel, cioè un libro di interviste al femminile.

 

Fonte foto: Pasquale Fabrizio Amodeo

 

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