“Binxet – Sotto il confine” è il primo documentario che attraverso immagini esclusive e testimonianze sul confine turco-siriano, racconta in maniera fedele la lotta per l’auto-governo, l’indipendenza e l’autonomia del popolo Curdo.
“Un paese che non esiste sulle cartine geografiche”, ma che trova spazio nell’informazione indipendente e nelle produzioni dal basso, grazie alla regia di Luigi d’Alife e ad una voce narrante che sono stati attivamente impegnati con i loro occhi e le loro telecamere in Kurdistan.
Il documentario denuncia le ingenti spese europee per finanziare il Governo Turco del dittatore Erdogan, macchiato negli ultimi anni di uno dei conflitti più sanguinari ed aspri del Medio Oriente, e di cui anche l’Italia è complice silenziosa, con più di 2 miliardi di euro per l’esternalizzazione delle frontiere. L’UE, fautrice di una campagna di strumentalizzazione del fenomeno migratorio, ha così legittimato le politiche di prigionia e tortura entro i confini della Turchia, accordando quasi 10 miliardi di fondi pre-adesione, allo scopo di “modernizzazione” del paese.
Nonostante la declamata centralizzazione dei programmi, che dovrebbero svilupparsi sotto rigidi e costanti controlli, quello che si sta registrando è l’aumento dei luoghi di detenzione indiscriminata dei profughi siriani, insieme alla brutalità delle milizie islamiche e dell’esercito turco.
Rispetto ai progetti che avrebbero dovuto vedere in costruzione scuole e ospedali, quello che il Presidente Tayyp Erdogan sta compiendo, è denunciato come un vero e proprio genocidio, un’epurazione etnica contro la popolazione definita da Daesh come “peccatrice”.
Binxet – Sotto il confine: Ma cosa vuol dire vivere sul confine?
“Il terreno è disseminato da mine”. Questo lo dice Dilges, un contadino che vive nel villaggio di Sifek, a ridosso delle basi militari dispiegate dall’esercito turco. La sua, è una storia simile alle tante dei contadini che non possono più lavorare, né attraversare le proprie terre a causa di una brutale repressione e limitazione della libertà ad avvicinarsi al confine turco-siriano. Il rischio per i curdi è quello di venire sparati dalle milizie di Erdogan.
Il processo di occupazione e cambiamento demografico, l’immigrazione interna e l’aumento di campi-lager, dove viene negata l’autodeterminazione politica ed economica dei rifugiati, oggi rappresentano l’escalation di violenza con cui la Turchia e lo Stato fondamentalista Islamico stanno tentando di cancellare una società costruita sulla preservazione di una cultura multietnica, sull’apertura e libertà di religione, sul’emancipaziome e la tutela dei diritti femminili e sull’autogestione e mutualismo dal basso nel territorio.
“Ma se il confine diventa uno strumento di isolamento, assedio, diventa anche uno strumento di resistenza.”
Vivere sul confine significa anche diventare già nell’infanzia dei coraggiosi combattenti, che con ogni mezzo necessario, combattono le milizie israeliane e l’esercito turco, nel tentativo quotidiano di liberare i popoli oppressi. La storia di Besir, è la storia di chi nasce costretto a vedere la propria casa crollare, i propri familiari e amici morire, o divisi da chilometri di cemento armato e filo spinato che non permettono la libera circolazione degli abitanti, né spesso di far ritorno nelle proprie abitazioni.
Per tanti bambini sul confine, al ritorno da scuola, se si riesce a scappare velocemente non si finisce colpiti da un proiettile di un fucile nemico; mentre tanti altri bambini, si avventurano a provocare l’esercito turco ben consapevoli che lo scontro di fuoco può causare definitivamente la morte. Storie di sequestri di civili e combattenti, di mutilazioni, di torture e stupri rivendicati dall’ISIS con corpi esposti nelle piazze; storie di pelle stracciata dai corpi ed occhi cavati dal viso; storie di giornalisti che di fronte all’indifferenza ed al silenzio hanno scelto la prigione; storie che non hanno mai visto aprire processi, che imputassero alla dittatura delle colpe e che costringessero a mettere fine a questo genocidio.
E nonostante il panorama di barbarie, in questo scenario, avanzano i fronti di combattimenti di YPJ, YPG e PKK, organizzati alla resistenza e alla lotta armata per liberare i territori dagli eserciti invasori.
Mentre l’UE mercifica l’emergenza immigrazione a braccetto con la Turchia, viene espressamente denunciato nel documentario, il livello strumentale della propaganda dittatoriale di Erdogan, che a fronte dei costi per attraversare l’Europa di una volta, pari fino a 10,000 dollari adesso ne quantifica la cifra in “soli 500,00”, silenziando il fatto che la guerra ai curdi ha un costo enorme.
Il campo AFAD, sponsorizzato dalla Turchia come un sistema di beneficenza per i profughi siriani, nella realtà dei fatti genera mercificazione umana con nuove tratte di donne e bambini nel traffico della prostituzione. Il campo NEWROZ, invece, autogestito dalle forze curde, neanche con i recenti aiuti dell’UNCHR, UNICEF e Nazioni Unite riesce a garantire dei mezzi di sussistenza per tutti.
E’ per questo che la speranza per l’intera popolazione curda trova maggior chiarezza e determinazione nella campagna “Ez nacim” (Io non vado). Un giovane curdo e militante, ha forse sintetizzato in poche parole che
“Daesh è il nemico di cui ci interessiamo solo quando bussa alle porte di casa nostra”,
rivolgendo a tutta la sua popolazione che è stata costretta a fuggire un forte appello: quello di ritornare nella propria terra a combattere, perché è l’unica via per praticare la propria libertà.