Napoli – Al Cinema Astra di via Mezzocannone, venerdì 14 dicembre 2018 dalle ore 20.30, quinta ed ultima Anteprima della 10° edizione di AstraDoc – Viaggio nel Cinema del Reale con “LA STRADA DEI SAMOUNI” di Stefano Savona. Sarà presente il regista.
AstraDoc, organizzata da Arci Movie, Parallelo 41 Produzioni, Coinor e Università “Federico II”, prosegue il 14 dicembre alle 20.30 con La strada dei Samouni di Stefano Savona (Italia, Francia 2018 – 128’ (Festival di Cannes 2018 – Premio “Oeil d’or” come Miglior Documentario IDFA – International Documentary Film Festival Amsterdam – Selezione Ufficiale) che sarà all’Astra per presentare il suo ritratto di una piccola comunità palestinese straziata dall’orrore della guerra.
“La strada dei Samouni” è diretto da Stefano Savona con le animazioni di Simone Massi; Astradoc tornerà a gennaio con il programma completo.
Da quando la piccola Amal è tornata nel suo quartiere, ricorda solo un grande albero che non c’è più. Un sicomoro su cui lei e i suoi fratelli si arrampicavano. Si ricorda di quando portava il caffè a suo padre nel frutteto. Dopo è arrivata la guerra. Amal e i suoi fratelli hanno perso tutto. Sono figli della famiglia Samouni, dei contadini che abitano alla periferia della città di Gaza. É passato un anno da quando hanno sepolto i loro morti. Ora devono ricominciare a guardare al futuro, ricostruendo le loro case, il loro quartiere, la loro memoria.
Il 20 gennaio – racconta Savona – in seguito alla ritirata dell’esercito israeliano, ho potuto raggiungere il nord della Striscia e la città di Gaza dove sono entrato in contatto con la famiglia allargata dei Samouni, una comunità di contadini, sino ad allora sopravvissuta miracolosamente a 60 anni di conflitti e occupazioni, che si confrontava per la prima volta con una tragedia senza precedenti. Ventinove dei suoi membri, donne e bambini per la maggior parte, erano stati uccisi da un’unità d’élite dell’esercito israeliano; inoltre le loro case e i loro campi erano stati completamente distrutti. Ho iniziato a filmare i Samouni immediatamente, ma sin dall’inizio non ho avuto alcun dubbio: il mio film non si poteva ridurre al mero rendiconto del massacro, al compianto sulla tragedia o alla denuncia di un’ingiustizia. Le televisioni e i giornali del mondo intero in quei giorni dopo la fine della guerra stavano già offrendo al mondo in ogni più macabro dettaglio il racconto di quella tragedia, mentre i principali partiti politici di Gaza, da Hamas alla Jihad Islamica, provavano in tutti i modi ad appropriarsi di quei lutti per la loro propaganda. Ma una volta che le televisioni sono andate via e i funerali terminati, i Samouni sono restati soli. Iniziava per loro la fatica più ardua: ricomporre le ferite fisiche ed emozionali tra le rovine delle loro case, in un territorio dove i confini sono ermeticamente sigillati.
In quel momento continuando a filmare la famiglia, con la quale ero diventato nel frattempo sempre più intimo, ho cominciato a chiedermi come in queste condizioni estreme potessi raccontare al meglio quella storia, attraverso quale percorso narrativo avrei potuto affrancarmi dai cliché mediatici e politici sulla Palestina, frutto di sessant’anni di semplificazioni progressive, Come andare oltre il grido di disperazione dei sopravvissuti e all’esposizione ‘iconica’ della tragedia e del corpo dei martiri? Cliché applicati a Gaza dalla retorica politica e religiosa dominante, che continua a rappresentare i Palestinesi come un tutto indistinto, una folla opaca e piangente di fantasmi, vittime o sopravvissuti, che null’altro hanno da offrire alla Storia se non il proprio martirio o quello dei loro cari e che, così facendo, anche nella vita restano prigionieri della morte; la tragedia di un popolo che non raggiungerà mai l’eloquenza narrativa che solamente l’imprevedibile varietà, le contraddizioni, le peripezie delle vite individuali possono avere.
Sin da queste prime riprese, la risposta a questi miei interrogativi è venuta dagli stessi Samouni, e specialmente dai giovani protagonisti che ho iniziato a seguire giorno per giorno.
Le loro parole e i loro ricordi hanno iniziato lentamente a ricostruire il ritratto di un’antica comunità contadina indipendente e composita, da cui emergevano le diverse personalità dei vivi e dei morti. La loro storia collettiva era ricca e complessa, piena di contraddizioni interne, di corti circuiti e di svolte inaspettate. Dovevamo quindi raccontare le loro straordinarie esperienze umane molto al di là degli avvenimenti drammatici di 2009.
Da allora, mi sono dato il tempo di ricostruire la storia dei Samouni da più lontano possibile. Volevo rendere giustizia alla singolarità di queste donne e questi uomini, alla loro saga familiare, al loro desiderio di indipendenza e alla loro tenacia.