Intervista – La gioia di Sandro Bonvissuto fa parecchio rumore

Quando l’amore si fonde con lo sport l’urlo dell’Olimpico può riconsegnare alla vita. Un urlo che fa parecchio rumore come la gioia di un bimbo che impara la definizione del verbo amare guardando la partita della Roma ogni domenica.

“La gioia fa parecchio rumore” (Einaudi) di Sandro Bonvissuto

Ne “La gioia fa parecchio rumore”, siamo nella capitale tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta quando Sandro Bonvissuto ci consegna un piccolo romano che, seduto sul divano di casa o incastrato tra il padre e lo zio sugli spalti dello stadio, inizia a muovere i primi passi nel mondo romanista. La storia, racchiusa in 187 pagine, è una storia d’amore non convenzionale, multiforme e corale che a partire da un breve prologo sull’amore dai tratti filosofici, apre spiragli su un mondo qualche volta incompreso: quello dei tifosi.
Il protagonista creato da Bonvissuto prende per mano il lettore e gli apre le porte della città eterna dove si percepisce il rapporto viscerale che si instaura tra i cittadini e Roma. Poi apre la porta di una casa in cui il calcio non è solo un semplice sport ma la causa di lacrime e trasferte, lezioni di vita e persino licenziamenti. Infine l’ultima porta è quella di un grande campo da calcio dove sogni, speranze, sacrifici, attese, delusioni e cori stimolano un sentimento di fratellanza che culmina in amore allo stato puro quando un giocatore con il numero 5 stampato sulla maglia giallo rossa fa un “salto nel cielo col braccio in alto e il pugno chiuso”. È goal.

Sono le 9 del mattino e a Bologna, dove mi trovo, c’è il sole. Lo stesso che probabilmente si vede a Roma dove Sandro Bonvissuto risponde alla mia videochiamata online. Il nostro primo incontro avviene così, aldilà di uno schermo in due case parecchio luminose. Lui è gentile ed emerge subito la sua divertente schiettezza. Mi entusiasmo. Lui si allontana per fare il caffè mentre io lo aspetto davanti al pc e dopo poco torna con una tazzina bianca da cui fa un lungo sorso. Iniziamo in un clima conviviale come se fossimo l’una nel salotto dell’altro. Ed entrambi abbiamo accanto “La gioia fa parecchio rumore”, l’ultimo libro pubblicato da Sandro Bonvissuto ed uscito lo scorso febbraio per Einaudi.

La gioia fa parecchio rumore” è un romanzo effettivamente rumoroso. Com’è nato? Qual è la storia che si nasconde dietro al libro e tra le pagine?

Il libro racconta una storia che sta dentro ad un’altra storia. Sullo sfondo c’è l’Italia dei controversi anni Ottanta caratterizzati da un attentato al mese e da un morto al giorno. Più da vicino racconto la storia della tipica famiglia italiana simile a tante altre in cui i personaggi descritti, dal padre con le ciabatte alla tanto gentile quanto autoritaria padrona di casa, sono lo specchio di una realtà vera. E infine, al centro del libro c’è una vicenda sentimentale, quella del piccolo protagonista.

Nel libro c’è un bambino, c’è la sua famiglia, ci sono i tifosi della Roma, passanti e controfigure che rendono il romanzo corale e c’è anche un personaggio che, seppure distaccato, è assolutamente centrale nella storia: Barabba. Chi è e che ruolo ha?

Barabba è una sorta di messia, un richiamo biblico a partire dal nome. Barabba è stato anche il nome del matto del quartiere della mia infanzia. Ma Barabba è anche il primo che prepara il protagonista ad accogliere il diverso, lo straniero, non con occhi spaventati ma con la convinzione che l’alterità possa essere sinonimo di miglioramento. E sarà lui a creare le basi per l’accoglienza di Falcão.

Nel libro non ci sono nomi e cognomi, non ci sono riferimenti storici chiari e mancano dettagli di specifici eventi calcistici. Perché questa scelta?

Una delle regole auree della mia scrittura è: “Il libro deve essere leggibile e comprensibile a tutti, pure a mia nonna.” Da qui la scelta di non entrare nel merito di ogni dettaglio. Il mio non è un libro di “pallone” ma è una storia che parte dall’amore per la Roma per diventare un inno all’amore in generale.

Quanto c’è di autobiografico in questo tuo ultimo libro?

Il libro percorre quella sottile linea di confine che separa verità e finzione. Nella periferia centro-sud di Roma ho collocato un ragazzino, un padre, una madre, uno zio che sintetizzano, in parte, almeno un paio dei miei reali familiari. Dentro al libro ci sono io nello stesso modo in cui c’è un qualsiasi mio coetaneo romano che ha vissuto quegli anni e quei luoghi. 

Il titolo, certamente accattivane, hai detto che “è una frase che sta dentro al libro che è piaciuta in casa Einaudi”. Qual era invece il titolo che avevi immaginato tu per questo romanzo?

Ogni volta che si arriva al momento in cui bisogna scegliere il titolo c’è grande tensione, partecipazione ed entusiasmo. Finché ero da solo con il mio testo ero io a comandare totalmente su ogni minimo particolare del libro ma poi, quando si entra in una casa editrice come l’Einaudi bisogna spogliarsi della cocciuta convinzione che contraddistingue ogni autore e aprirsi all’ascolto. Il libro doveva chiamarsi “Noantri”. E “Noantri” era nient’altro che la crasi popolare di noi e altri e stava a significare “Noi che siamo altro da voi”, ovvero un insieme di persone accomunate dalla passione per la Roma. Il termine, però, è fortemente provinciale ed abbiamo immaginato che non avesse un rimando diretto per ogni lettore. Alla fine però, nonostante non abbia “vinto” il titolo che avevo pensato inizialmente, sono felice che i suggerimenti si siano mossi sempre tenendo conto del testo, tant’è che “La gioia fa parecchio rumore” è una frase che si trova nel libro.

La scrittura è un’arte solitaria che diventa un’azione collettiva quando si entra in una grande casa editrice come l’Einaudi. Sei stato affiancato da un editor. Com’è stato condividere il frutto del tuo lavoro e accogliere suggerimenti e cambiamenti?

Per descrivere il rapporto autore- editor mi viene in mente il rapporto che c’è tra calciatore e allenatore. Il calciatore si dà un ruolo ed è convinto di quel ruolo, poi però magari arriva l’allentare e lo reinventa in un modo che non immaginava e che lo migliora, persino. Nell’editoria è più o meno così. L’autore è presuntuoso, pensa di aver sempre ragione, ha un grande ego e io non faccio eccezione. Eppure il confronto con l’editor è fondamentale per analizzarsi, comprendersi e migliorarsi. Stare in casa editrice è come stare in una bislacca famiglia, ci si sostiene e ci si sopporta, con un obiettivo comune.


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