“Il processo ai Chicago 7”, trama e recensione

“Il processo ai Chicago 7” – Il 28 agosto 1968 a Chicago ci fu la convention del Partito Democratico e contestualmente scoppiarono degli scontri tra attivisti di sinistra contrari alla guerra del Vietnam e la Guardia Nazionale. Da tutto ciò scaturì il processo ai Chicago 7, accusati ufficialmente di aver causato quegli episodi di violenza ma in realtà additati per aver fatto valere le loro idee e una certa controcultura. Alla sbarra finisce pure Bobby Seale (Yahya Abdul-Mateen II), co-fondatore dell’organizzazione rivoluzionaria afroamericana delle Pantere Nere. Il quale, però, si era trattenuto a Chicago soltanto quattro ore in quel 28 agosto. Il comportamento del giudice Julius Hoffman (Frank Langella) appare fin da subito fazioso e ingiustificatamente autoritario, addensando ulteriormente le nubi attorno ad un processo più che controverso.

“Il processo ai Chicago 7”, recensione

Punirne uno per educarne cento. Fu questo col senno di poi il senso del processo ai Chicago Seven, la cui tendenziosità fu corroborata dai numerosi infiltrati tra le fila degli attivisti, chiamati poi a testimoniare. Il regista e sceneggiatore Aaron Sorkin (già autore di “The Social Network” e “Steve Jobs”) ci porta per gran parte delle due ore abbondanti di durata dentro un’aula di tribunale, con qualche flashback ogni tanto nel vivo delle proteste che accosta immagini di repertorio a quelle di fiction. Espediente quest’ultimo che funziona insieme ai dialoghi brillanti e satirici, in un film che si veste essenzialmente da reportage.

Breve ma determinante ai fini del processo l’apparizione di Michael Keaton nei panni di Ramsey Clark, ex procuratore generale col dente avvelenato contro Nixon e sodali. Non convince fino in fondo il personaggio interpretato da Joseph Gordon Levitt, avvocato dell’accusa che sostiene in maniera più o meno convinta il governo ma di fatto resta sospeso in mezzo al guado senza risvolti risolutivi.

Ben sei le nomination agli Oscar 2021 raccolte per miglior film, sceneggiatura originale, fotografia, montaggio, canzone e miglior attore non protagonista a Sacha Baron Cohen. Che conferma la sua versatilità rendendo le varie sfumature dell’yippie Abbie Hoffman, in uno dei titoli che accresce ulteriormente il livello di qualità del catalogo Netflix e rappresenta uno degli eventi di questi mesi.

I profili dei Chicago 7 restano in fin dei conti abbozzati, per una resa probabilmente lontana dall’idea originaria che Steven Spielberg aveva avuto del film nel 2006. Il messaggio della storia passa ma Sorkin sembra non voler più di tanto “sporcarsi le mani” né mostrare una sua prospettiva, facendo grande affidamento su un cast di primo livello. E smorzando i toni di una materia molto più cruda di come qui appare, se si escludono un paio di scene delle proteste e quella del trattamento riservato a Bobby Seale. Insomma, la rivoluzione vera è ben altra cosa.

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