Psicoterapia delle dipendenze


La psicoterapia delle dipendenze patologiche è un testo scritto e curato dal dott. Pietro Scurti,  Psicologo dirigente dell’Asl Napoli 2 nord Ser.D. di Casavatore. Psicoterapeuta e didatta della Scuola di specializzazione in psicoterapia sistemico-relazionale I.Te.R. di Napoli e Caserta. Presidente del comitato tecnico scientifico della S.I.P.A.D. Campania (Società Italiana Patologie da Dipendenza). Lavora e vive a Napoli ed è autore di alcuni libri e numerosi articoli scientifici sul tema delle dipendenze patologiche e della psicoterapia gruppale.

Il testo vanta di contributi di spessore come la dott.ssa Rossella Aurilio, Antonio D’Amore, Daniele De Stefano, Antonella Di Donato, Nunzia Giacco, Iolanda Mele, Daniela Selvaggi, Cinzia Vitiello.

Il dott. Scurti è molto chiaro  nel suo concetto di Psicoterapia che considera come uno strumento di elezione per le dipendenze in modo particolar e per dare una risposta alle persone che  vivono un disagio molto complesso.

Ci spiega che  questo libro è nato durante il lockdown ed è un libro sia per i neofiti che per gli studenti di psicologia in formazione, ma vuole  anche essere una sorta di voce nell’orecchio del terapeuta che magari si siede davanti ad un dipendente patologico.

Un libro che va letto tutto di un fiato, ma va anche vissuto assaporato da cui prendere spunti di riflessione e suggerimenti, con un linguaggio metaforico ricco e capace di fornire punti di riferimento nel labirinto complesso delle relazioni di aiuto.

In questo volume l’Autore illustra strategie, strumenti e percorsi terapeutico-riabilitativi attraverso i quali giungere al cuore della relazione di cura. Un libro generoso, dove l’autore ripercorre storie  vissute, storie di disperazione e sconforto.

L’esperienza nelle dipendenze raccontata attraverso un modello di intervento che propone linee da seguire come se fosse un manuale per stabilire “incontri” con il disagio. Metafore terapeutiche, creatività, vita… L’autore, in un comparto del  libro tenta di far luce sulle inevitabili trappole insite in questi incontri disperanti, rileggendo sedute di terapia ricche di sentimenti e provocazioni..

L’autore ci presenta l’esperienza di Alvito, cuore pulsante di questo scritto, il Ser.D che esce dai propri confini e si fa comunità.  Ad Alvito si mettono in atto riti di trasformazione del gruppo Ser.D in regime comunitario, aneddoti , esercizi, emozioni. In ogni storia un pò di ognuno, anche se per contesti e vissuti differenti.

Ma le emozioni si sa parlano una lingua universale. Solitudine, fragilità, inadeguatezza, futuri apparentemente senza speranza, identità frammentate. Percorsi di cura  attraverso il riconoscimento e l’accettazione  della condizione  attuale del paziente che rappresenta un’opportunità di specchiarsi nelle storie degli altri,  un incontro costruttivo dove il gruppo rappresenta un luogo privilegiato di viversi.

In quella stanza  non esiste passato e futuro, ma esiste il presente. Una stanza di terapia non come stanza isolata che chiude fuori il mondo, ma diventa luogo di costruzioni di ponti  di canali verso gli altri luoghi in cui le persone vivono per la maggioranza del tempo. È lì che si può agire.

 “Ad Alvito  ci si piega all’altare della propria storia personale e ci si affida all’altro, in una liturgia che celebra chi siamo o meglio chi scegliamo di essere oggi” (Scurti).

Il libro propone modalità comunicative funzionali all’aggancio di una utenza specifica e sfuggente, nel contempo squalificante e desiderosa di accoglienza.

“Io sono stato guarito e da chi non c’è l’ha fatta. Ho capito che non salviamo nessuno ma la nostra presenza professionale e la nostra preparazione è un prerequisito fondamentale per accogliere il dolore degli altri. Altrimenti siamo aria fritta.”

Queste le parole dell’autore intrise di verità, una verità spessa scomoda dal profumo dell’impotenza e dalla rabbia che deriva da questo sentimento

L’esperienza di Alvito, l’uscire dalle mura dell’Istituzione risponde ad un bisogno emotivo di condivisione e confronto che unisce sia gli utenti che gli operatori. Un percorso duro, difficile, ma un viaggio che ti accompagna neai meandri più èrofondi del proprio essere, nelle stanze più buie e dove proprio la si troverà la luce….

“…perché un percorso che ha senso è un percorso che non ha mai fine, non perché si rimanga legati, ma perché si è liberi di restare”

“Non è stato facile scoprire di essere una tossica, ancora di più accettare che fosse solo una parte di me. Ma io non sono la sostanza sono Rosa.”

 

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