Pippo Imbesi, mai dimenticato dai siracusani…

L’addio al più grande presidente del Siracusa Calcio

Un pezzo di storia del calcio siracusano è ormai volato in cielo, e con lui passando davanti agli occhi le immagini di tempi ormai lontani. Pippo Imbesi, il presidente più amato e stimato è volato in cielo per unirsi a chi ormai “tifa” da lassù. Una persona amabile ma anche di carattere difficile che ha dato tutto a una città che negli ultimi anni sembrava averlo dimenticato; e invece no, alla notizia della sua scomparsa si è messa in moto la potente macchina del social network diffondendo parole di amore, gratitudine, sofferenza e cordoglio verso quest’uomo che ha avuto il potere di unire un popolo intero. Mercoledì 27 tutta Siracusa si stringe attorno alla chiesa di Santa Lucia al sepolcro per dare l’ultimo saluto a colui che ha amato incondizionatamente questa città e questi colori; perdendo ogni cosa pur di vedere il Siracusa Calcio dove meritava.
Tra tutti i ricordi dedicati al presidente Pippo Imbesi, risalta agli occhi quello del giornalista Seby Spicuglia che è andato a toccare il cuore di chi ha letto le sue parole ricordando le sue interviste negli ultimi anni di vita:

Pippo Imbesi (14/3/40 – 25/1/016)

Gli anni polverosi del leone in gabbia.

Pippo Imbesi batteva i pugni sul tavolo e si stropicciava la faccia con le mani, negli ultimi anni della sua vita.
Lo faceva quando si arrabbiava, e si arrabbiava quasi sempre quando ripensava alla sua squadra, al Siracusa Calcio, gli si strozzava la voce in gola e allora il ragazzo straniero che gli faceva da badante si avvicinava e tentava di calmarlo, ma lui lo allontanava e ricominciava a sbraitare.
Viveva, in quel periodo, in una casetta nei pressi del Circuito, sulla strada mancava l’asfalto e la polvere si alzava quando passavano le automobili.
E questo lo faceva arrabbiare ancora di più: si affacciava dalla porta e tossiva, diceva che nessuno pensava a lui che in un certo senso era stato uno dei tanti cuori belli della città, e che a nessuno importava se adesso quella polvere bianca che si sollevava gli entrava nel naso e nella bocca e gli irritava i polmoni affaticati.
La stanza dove stava Pippo Imbesi sembrava una succursale di ospedale, era piena di medicine piazzate ovunque.
Imbesi ha sempre avuto la faccia bolsa di un Aldo Fabrizi in salsa aretusea, aveva dentro un demonio sportivo che urlava e si esaltava, amava il calcio più di ogni altra cosa e quando, negli ultimi anni della sua vita, ripensava al fatto che quasi nessuno si ricordasse più di lui, gli si arrossavano gli occhi e la rabbia lo divorava.
Io, che di calcio capisco zero, l’ho intervistato alcune volte, negli ultimi anni, sempre in quella casetta piena di medicine e con pochi ricordi dello sport che aveva plasmato e rimesso in moto in città, spendendo salute, tempo e denaro.
Batteva la mano grassa sul tavolo, facendo volare medicine termometri penne e pillole per ogni dove, quando ripensava ai tempi che furono e <ai giovani di adesso che non capiscono un cazzo>, respirava a fatica, si agitava tutto e allora doveva a calmarsi e ricominciare di nuovo.
Lui, che quel leone azzurro lo aveva curato e foraggiato, sfamato e fatto diventare una belva da c1, adesso che era vecchio e malato era diventato a sua volta un leone in gabbia, malandato e pieno di acciacchi, una bestia triste che non trovava più la strada per raggiungere la foresta e riposare all’ombra degli alberi e delle liane.
L’ultima volta che ho visto Pippo Imbesi, le gambe malferme e le borse sotto agli occhi gonfie come una rete quando il pallone ci finisce dentro a mille all’ora, mi ha accompagnato fin sulla porta di casa ed è rimasto lì ad agitare la mano in segno di saluto, mentre nell’ombra il ragazzo che lo assisteva pietosamente lo sorreggeva per un fianco.
<Voglio proprio vedere come mi ricorderà, il Siracusa, quando non ci sarò più>, disse, prima che la polvere dell’automobile sollevasse quel pulviscolo bianco che lui odiava e gli si chiudesse davanti come un sipario felliniano.
Lui la sua casacca azzurra è come se ce l’avesse addosso, in ospedale, mentre il corpo si raffreddava e Pippo Imbesi si staccava dal mondo, raggiungendo un altro posto più lontano e meno polveroso.
Io di calcio capisco poco, e me ne importa ancora meno.
Ma quella domanda che mi fece sulla porta, affaticato e triste, me la sto ponendo anche io.
(seby spicuglia, 25/1/2016)

Imbesi

Queste parole fanno riflettere ognuno di noi, quasi ci fanno sentire in colpa per aver “abbandonato”, negli ultimi anni della sua vita, colui che ha dato tante gioie al popolo siracusano. Anche se ho solo 22 anni e l’ho conosciuto in quelle volte che veniva allo stadio mi sento in colpa per ogni siracusano presente in questa terra. Non si può far altro, adesso, che rendere omaggio alla vita di Pippo Imbesi perché da lassù ci guarda e credo che si sia accorto che il popolo aretuseo non l’ha mai dimenticato e racconterà ai figli dell’uomo che con la sua tenacia ed il suo amore ha portato in alto il Siracusa Calcio amandolo fino alla fine…


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