Questo film, datato 2013 e ispirato ad una storia realmente accaduta in Irlanda negli anni Cinquanta, riapre una piaga dolorosa della storia femminile del secolo scorso (i figli del peccato, nati cioè al di fuori del vincolo matrimoniale) e pone l’accento -senza sconti di alcun genere- sulla larga parte che il Clero di allora ebbe nell’esasperare la situazione di queste ragazze madri, depauperate di ogni diritto ma soprattutto della loro dignità.
E’ pur vero che altre pellicole hanno mostrato con quanta leggerezza le madri americane mandassero in convento le loro figlie affinché partorissero lontane da occhi indiscreti, mentre familiari ed amici le credevano in Europa per il loro grand tour; e con altrettanta leggerezza le figlie rientravano nel loro mondo, nelle loro cose di sempre purché l’onore fosse salvo. Ma la pellicola di Stephen Frears non racconta uno spaccato del costume dell’epoca, quanto piuttosto la storia di un dolore, di un viaggio sospeso per circa 50 anni, dell’insopportabile angoscia di un’anziana signora cattolica che, pur essendosi rifatta una vita (un marito, altri figli, una nipotina) non riesce a trovare pace pensando a quel bambino che le sorrideva in convento, e che lei poteva vedere per un’ora al giorno soltanto. La vicenda è narrata con toni delicati, con bontà e senza inutili buonismi, e deve alla sceneggiatura (Jeff Pope e Steve Coogan, anche co-protagonista) e alla bravura degli interpreti (Judi Dench, “The Queen”) il ritmo dei dialoghi (so british) e del film stesso, non lento ma misurato, e l’uso indispensabile dei flash-back non disturba la narrazione con gli scatti verso il passato ma, anzi, ne marca il passo positivamente.
L’infermiera in pensione Philomena non è una sempliciotta come appare, ma una donna capace di dubbi, di scelte coraggiose e di grandi sincerità, né il giornalista Martin è il cinico, arido, disilluso uomo che è stato defenestrato dal governo blair. Sono due persone che si incontrano in un momento di cambiamento delle lore rispettive vite e che, nel rispetto delle diversità reciproche (una coppia di stranieri deliziosamente assortita) vanno in America sulle tracce del figlio adottato contro la volontà della madre stessa. La verità non è mai né bella né brutta, va però indiscutibilmente accettata e lavorata come una pratica importante, da archiviare necessariamente per poter riprendere il controllo della propria esistenza e del proprio mondo emotivo. Il film si chiude con un senso profondo del perdono e,allo stesso modo, si è conclusa la vicenda nella vita, quando Papa Francesco ha invitato la signora Lee in udienza a Roma e lei lo ha portato a conoscenza del Philomena project, un gruppo nato per aiutare le madri nubili a ritrovare i propri figli, superando l’ostracismo ancora presente nel governo irlandese. La pellicola, con un Robbie Ryan alla fotografia -che ha saputo restare sullo sfondo senza sovrapporsi alla storia ma regalando, comunque, degli scorci bellissimi- , era candidato a ben 4 Oscar alla manifestazione che ha visto la vittoria di Sorrentino come miglior film starniero (La grande bellezza), ma a nulla è valsa la profondità degli occhi estremamente espressivi di Judi Dench o la mobilità rugosa del suo splendido viso. Nessun oscar per Mississ Lee, almeno questa volta.