Dopo gli scontri tra truppe cinesi e indiane avvenuti nella notte tra il 15 e il 16 giugno nella valle di Galwan, sotto controllo indiano ma rivendicata da Pechino, in diverse città indiane ci sono state manifestazioni anticinesi con bandiere e foto del presidente Xi Jinping date alle fiamme. Il governo indiano ha deciso un aumento dei dazi su una serie di prodotti cinesi e di innalzare le barriere commerciali, accordando in questo modo le richieste di boicottaggio richieste da molte associazioni di stampo nazionalista, da alcuni funzionari e dalla potente Confederazione nazionale dei commercianti indiani. Dal canto suo la Cina ha accusato l’India di una “deliberata provocazione” sul confine himalayano, aumentando di fatto l’escalation di tensione tra i due paesi.
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L’origine dello scontro
Lo scontro sarebbe avvenuto senza armi da fuoco – per via di accordi presi dopo la guerra del 1962 e rinnovati negli anni successivi per evitare escalation pericolose tra le due potenze nucleari – ma con l’ausilio di sassi, pugni e mazze chiodate. Sebbene le informazioni riguardo alle vittime vadano prese con beneficio del dubbio perché limate dalle propagande dei due Paesi, si è parlato di 20 soldati indiani morti e di un numero oscillante tra 35 e 50 da parte cinese. Il pretesto dello scontro sarebbe stata una struttura cinese costruita durante domenica notte, demolita il giorno dopo dalle truppe indiane, con conseguente reazione delle truppe cinesi che avrebbero preso di sorpresa i soldati indiani, attaccandoli.
In realtà la vera fonte di dissidio, lungo un confine di oltre 4000 chilometri e di difficile gestione, sarebbe una strada costruita recentemente dagli indiani per rifornire con mezzi, uomini e armi le postazioni in caso di conflitto. Considerata dai cinesi un atto provocatorio, sin da maggio c’erano state piccole scaramucce e reciproche accuse di sconfinamento, ma senza mai esplodere in atti di violenza conclamata.
La guerra sino-indiana del 1962 e le dispute confinarie
La tensione tra Pechino e New Delhi nasce a causa di una questione confinaria mai risolta. L’attuale linea di divisione tra i due Paesi fu infatti disegnata dagli inglesi nel corso dell’800, ma la Cina e l’India non l’accettarono mai. Subito dopo l’indipendenza del 1947, l’India iniziò a rivendicare ampi territori che i cinesi non avevano mai abbandonato e già alla fine degli anni ’50 iniziarono sporadiche schermaglie tra i due paesi. Nell’ottobre del 1962 si arrivò a un vero e proprio conflitto. La Cina invase formalmente l’India per il controllo della parte nordoccidentale del territorio indiano denominato Aksai Chin e di quello nordorientale, delimitati rispettivamente dalla Linea Johnson e dalla Linea MacMahon, entrambe contestate dai cinesi. L’India, nonostante il sostegno logistico statunitense, risultò pesantemente sconfitta sul campo e si vide privata di un’ampia porzione di territorio himalayano e dell’ex reame del Kashmir (allo stato attuale parte dello stato indiano di Jammu e Kashmir) al confine nordoccidentale, mentre il confine nordorientale non subì alcuna modifica di posizione.
L’attuale confine, stabilito dopo la guerra, corre molto a meridione della catena montuosa del K’un-lun e prende il nome di “Linea attuale di controllo” (LAC). Anche tale confine tuttavia non è stato perfettamente definito, ma ha lasciato ampi margini di rivendicazioni e zone contestate. A partire dagli anni ’80, i due Paesi si incontrarono periodicamente per trovare una soluzione, senza però arrivare a un trattato definitivo. Soprattutto negli anni ’90, con i due accordi del 1993 e 1996, si decise di rinunciare all’uso della forza nonostante venissero mantenute da entrambe le parti le proprie posizioni divergenti riguardo alla questione e di rimandare la soluzione del problema a incontri internazionali futuri.
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Il contesto geopolitico e la rete di alleanze
Sebbene molti analisti convengano sul fatto che una guerra aperta tra la Cina e l’India sia un’opzione remota, così come l’eventuale utilizzo dell’arma atomica, la tensione tra i due colossi asiatici ha raggiunto livelli altissimi da molti anni a questa parte. Tra i principali motivi di attrito c’è sicuramente da annoverare l’avvicinamento dell’India agli Stati Uniti (suo principale rivale internazionale), sancita dal trionfale viaggio di Trump a New Delhi, e culminato nella firma di un trattato di vendita di armi statunitensi agli indiani; l’esilio del Dalai Lama nella città indiana di Dharamsala, a seguito dell’occupazione cinese del Tibet; la retrocessione del Kashmir da parte del primo ministro indiano Modi, da stato a regione autonoma, e le provocazioni di quest’ultimo di annettere anche il Kashmir pakistano, minacciando in questo modo il corridoio sino-pakistano della Nuova Via della Seta cinese; le relazioni sempre più strette dell’India con Taiwan e Giappone, due paesi tradizionalmente invisi alla Cina. A loro volta gli indiani hanno visto di cattivo occhio la collaborazione instaurata tra Cina e Pakistan (storico rivale dell’India) per le iniziative legate alla Nuova via della Seta e ad alcune partnership commerciali.
Quello che emerge da questa situazione è una Cina che comincia a soffrire di una sindrome da accerchiamento alla quale sta rispondendo mostrando i muscoli e i denti e non è da escludere che gli incidenti del 15 giugno siano un avvertimento lanciato da Pechino a New Delhi.