Dove finisce la creatività dei napoletani

“Napoletano?”
“Sì”
“Emigrante?”
Ricomincio da tre (Massimo Troisi)


Era il 1981 quando con una geniale trovata Massimo Troisi spiegava come il napoletano è prigioniero del suo essere tale, fiero figlio di un racconto stereotipato che ancora oggi – ahimé – viene perpetrato. A più riprese, durante l’arco di tutto il suo “Ricomincio da tre” (primo film che lo vede dietro la macchina da presa), al suo protagonista Gaetano viene chiesto, dopo aver appreso che è napoletano, se è emigrante. All’ennesimo tentativo, Massimo/Gaetano non prova nemmeno più a spiegare che a Napoli un lavoro ce l’aveva e che voleva partire per scoprire il mondo e cede, rassegnato, al “sì”.

Napoli, luoghi comuni e pantomime

Sono passati quaranta anni e Napoli è ancora condannata da sé stessa, da un racconto che non riesce proprio a scrollarsi da dosso luoghi comuni e pantomime, in un’eterna giostra che ci vuole genio e sregolatezza, passione e tragedia, farsa e commedia, vicoli e camorra. Si veda Corrado Augias e il vespaio di polemiche sollevato dalla sua puntata di “Città segrete” dedicata a Napoli, colpevole di non aver accontentato una pletora di partenopei in un racconto che – a questo punto – mi chiedo come dovesse essere mai strutturato. Trascende il gusto di una sana dialettica sul prodotto finale per imporre una personale sensibilità che sia giusta, intesa come giustizia. Un po’ presuntuoso, diciamolo, da parte dell’utente stabilire cosa è giusto e cosa è sbagliato. Molto più corretto parlare di cosa può piacere e cosa no.

Tutto ci è concesso, tranne la normalità. Come la normalità reclamata da Gaetano, che partendo da qualsiasi altra città si poteva definire viaggiatore e, invece, nel bagaglio di cartone di chi parte da queste parti non ha caricato meraviglia, ma stereotipi. Ed è complesso, eh, complessissimo spiegarlo. Ci ha provato Erri De Luca, interpellato proprio poche ore dopo il “caso Augias” da Natascia Festa del Corriere del Mezzogiorno, usa queste parole:

«Napoli è molto facile da raccontare: ognuno ne tocca una parte, come succede in quella storia dei ciechi che toccano un punto dell’elefante. Chi tocca la zampa dice che è una colonna, chi tocca un orecchio dice che è un ventaglio, chi tocca la proboscide dice che è un tronco. Napoli si è liberata da ogni possibile verifica, perciò è leggendaria. Chiunque si accomoda e la descrive, aggiungendo il suo commento all’innumerevole catalogo compilato dai passanti».
Erri De Luca

Quello che proprio non si sopporta più agli albori del 21simo secolo è questo racconto stereotipato di una città che sogna di essere metropoli come le altre. Lo sogna sommessamente mentre rinnega Augias e si fregia della metropolitana più bella del mondo (che non funziona). Lo sussurra sottovoce mentre la cronaca la prende a schiaffi con bombe ai Colli Aminei e omicidi di camorra a Miano. Senza allargarsi ai confini provinciali, dove andremo a testimoniare invece recrudescenze di quella buona, sana, vecchia abitudine di conservarsi i posti auto su strade pubbliche con sedie o cartoni della frutta, e dove sfidare il potere precostituito arriva addirittura a costarti la vita.

La condanna di me, napoletano, che devo spiegare ai sciur milanesi (tra cui alcuni follower della Palombelli) che nonostante ciò no, non giriamo con le pistole a vista, è quella di non poter essere mai raccontato normalmente. Ed è in questo contesto che si inserisce la questione dei tavolini improvvisati alla Pignasecca.

I paletti alla Pignasecca? Non chiamatela “creatività” dei napoletani dettata dalla crisi!

La storia è questa: c’è qualcuno che prende e pubblica una foto di paletti stradali – di quelli che adornano e limitano i marciapiedi – nei pressi dell’ospedale Vecchio Pellegrini, riutilizzati a mò di tavolino. Cioè, qualcuno si è preso la briga di trasformare l’arredo stradale per poggiare piattini e caffé. Questa città vittima di sé stessa non nota certo il possibile abuso, la probabile occupazione di suolo pubblico. No. Questa città, e i suoi osservatori privilegiati (buona parte dei media), sull’onda del “Draghi ha detto che possono stare aperti solo i ristoranti che fanno servizio all’aperto“, etichettano questo rivoluzionario atto come esempio “della creatività dei napoletani“. Riuscendo contemporaneamente in due prodezze comunicative: intrappolare ancora un popolo intero in un luogo comune che puzza di vecchio e di ingiusto da un lato, legittimare un comportamento probabilmente illecito con tanto di interviste ai sedicenti responsabili dall’altro.

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Dove finisce la creatività dei napoletani

Apro e chiudo parentesi: non vi è alcuna “creatività” dettata dalla crisi. La soluzione del paletto-tavolino trova già riscontro nel 2020 (foto di Google Maps datate ad agosto presentano già questi urbani totem di creatività) e alcuni garantiscono che la situazione era così anche nel 2019 esibendo altre prove fotografiche (e lì non c’era manco il Covid).

Se volete davvero fare un favore a questa città, sul serio, avete un solo modo: raccontatela prescindendo da lei.

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