Napoli, 1835 – Per l’ennesima notte, ha dovuto attraversare mezza città all’affannosa ricerca del “suo amico” che, finalmente ritrovato, ha accolto tra le braccia e ha riportato a casa stordito com’è dal vino e affaticato dalla malattia che, ormai, lascia ben poco, troppo poco.
Ripiegato su se stesso, avvolto in un liso soprabito turchino, il Conte, appena può, raggiunge i vicoletti di Via Toledo, intrattenendosi al Bar Trinacria, dove consuma gelati, dolci e caffè ininterrottamente, oppure le locande dove, i più semplici lo accolgono, essendo diventato “dispensatore di buona sorte”, poichè la deformità del corpo è talmente avanzata da farsì che “l’infinito poeta”, Giacomo Leopardi, si aggiri tra Toledo e Santa Lucia, irriconoscibile ed indisturbato, malignamente identificato come “U Ranavuottolo”(il ranocchio), suggerendo ai più, i numeri da attendere al lotto, gioco diventato sua vera e propria passione.
E’ a Napoli, dunque, che trascorre gli ultimi tre anni della sua breve vita, giungendovi con l’ amico di sempre, Antonio Ranieri. Qui vive sorprendentemente e inaspettatamente un rapporto contraddittorio con la città, il suo popolo, i suoi intellettuali ed il territorio; vi arriva ormai famoso, e proprio qui, una tra le più importanti città di fine secolo, vuole confrontarsi ed affermarsi; resta, però, incredulo nel rapportarsi con quegli sconosciuti intellettuali che definisce addirittura ”troppo stolti per esser infelici”; allo stesso tempo, identificato da costoro come “una meschinità” innanzi alla quale il “colosso poetico” che hanno immaginato, scompare, ricordando come unica espressione sul suo volto emaciato e scomposto dalla malattia il meraviglioso sorriso.
I medici ordinano una dieta adeguata ed un’aria salubre, ma il Conte adora il caffè, le cozze, i cannolicchi, i taralli che accentuano i numerosi disturbi gastrointestinali.
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Villa delle Ginestre, dove Giacomo Leopardi rimase incantato dal Vesuvio
Insieme al fidato Ranieri, dopo Firenze, passando per Roma, arriva a Napoli, dove occupano diversi alloggi in comune con altri; il primo in Via Speronelli n.22 ai “Quartieri Spagnoli”, qualche mese al Vomero e poi, finalmente, l’abitazione tutta per loro in Vico Pero ( dove è apposta una lapide) che alterna con il soggiorno presso “Villa Ferrigni” (attuale Villa delle Ginestre), a Torre del Greco, alle falde del Vesuvio.
Qui è accolto l’ormai infermo Conte, quando a Napoli arriva il colera, ma qui non può restare quando il caldo è troppo. Nonostante la malattia non gli dia scampo, si aggrappa con tutte le sue forze alla vita e incantato dal panorama, travolto dalla continua attività vulcanica proprio accanto a lui, si sorprende quando ”Qui su l’arida schiena del formidabil monte sterminator Vesevo, tu, lenta ginestra, che di selve odorate adorni queste campagne”.
Sì, la ginestra, il fiore del deserto, un fiore che può sembrare talmente fragile e indifeso, ma che trova sempre la forza di rinascere nonostante vi sia la desolazione intorno.
Giacomo Leopardi nasce a Recanati e muore a Napoli, il poeta definito pessimista per eccellenza, il giovane che allontana le compagnie, preferendole alla solitudine di uno ”studio matto e disperatissimo”; è così che la sua memoria ha attraversato il tempo, ma così non è, così non fu. Grazie alle lettere che scrive a suo padre e a sua sorella abbiamo il racconto e la testimonianza dell’evoluzione del suo male che, iniziando dai sedici anni, ne consuma il corpo con atroci dolori, portandolo alla morte dopo gravi e lunghissime sofferenze.
Spondilite Anchilopoietica Giovanile, questa è la malattia diagnosticata dopo due secoli ad un “Uomo” che ha vissuto a tutti i costi e nonostante tutto, ritrovandosi ingabbiato in un corpo che lo ha tradito, procurandogli enormi sofferenze, un uomo dal fragile aspetto, ma la cui “Anima” sopravvive come ”la ginestra”, eternamente in questi luoghi.