Il fallito referendum sul nome della Macedonia


Il bivio davanti a cui si è trovata la Macedonia lo scorso 30 settembre, ossia la scelta di appoggiare l’ingresso nell’Unione europea e nella NATO accettando l’accordo con la Grecia sul cambio del nome del paese in “Repubblica della Macedonia settentrionale”, si è tradotto in un nulla di fatto.

Quorum non raggiunto e governo di centrosinistra sull’orlo della crisi in quello che è stato il primo vero tentativo di uscire da un pantano trentennale. Il tutto tradottosi in una vittoria dell’opposizione di destra e centrodestra, contraria al cambio del nome, che aveva invitato i cittadini all’astensionismo.

Anche se il referendum non era di tipo vincolante, un eventuale raggiungimento della soglia avrebbe aiutato la maggioranza a trovare i due terzi dei voti in parlamento necessari per modificare il nome del paese.

Il primo ministro socialdemocratico Zoran Zaev, il primo di centrosinistra dopo 11 anni di governo conservatore e nazionalista, si è detto deluso e non escludendo la possibilità di elezioni anticipate.

Zaev aveva infatti invitato i macedoni a votare a favore per togliere il Paese dall’isolamento.

Una disputa lunga 27 anni

La disputa sul nome dello stato balcanico infatti è una delle problematiche rimaste aperte dalla dissoluzione della Jugoslavia durante gli anni ’90.  Anche se Skopje era riuscita nel 1991 a evitare il conflitto con la Serbia, aveva trovato il suo principale oppositore nella vicina Grecia. Quest’ultima considerava pericolosa e lesiva dei suoi interessi la denominazione “Repubblica di Macedonia”, così come alcuni articoli della costituzione che avrebbero potuto dar vita a un irredentismo nei confronti della regione greca di Salonicco (regione della Macedonia per i greci). La soluzione giunse con l’ausilio dell’ONU e la firma dell’Accordo ad interim del 1995. Il nome assunto dal costituendo stato sarebbe diventato FYROM (Former Yugoslav Republic of Macedonia).

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Tuttavia quella che doveva essere una soluzione temporanea divenne nei fatti la norma definitiva nelle relazioni internazionali. E, nonostante alcuni tentativi di mediazione, la Grecia si oppose sempre all’ingresso del paese nella Nato, arrivando a porre anche il veto nel 2008.

Il primo passo per l’uscita da questa impasse lunga 27 anni era arrivato lo scorso anno con l’accordo di Prespa del giugno 2018 con l’ausilio del mediatore ONU Matthew Nimetz che prevedeva il cambio del nome del paese ma non di lingua ed etnia.

Un’occasione sprecata

Il quesito del referendum chiedeva proprio ai cittadini “Sei favorevole a entrare nella NATO e nel’Unione Europea, e accetti l’accordo tra Repubblica di Macedonia e Grecia?” E nonostante la comunità internazionale avesse posto il “sì” come condizione principale ad un’accelerazione del processo di integrazione, la soglia del 50% non è stata raggiunta. Un “sì” auspicato dai maggiori leader europei, da Angela Merkel e Sebastian Kurtz a Donal Tusk, molti dei quali si sono recati in visita nel Paese per sostenere il referendum.

Intanto la Commissione europea ha iniziato l’analisi dei requisiti per l’adesione all’Ue di Macedonia e Albania per l’avvio dei negoziati, previsti per quest’anno. Ma la questione con la Grecia rimane ancora aperta e finché non sarà superata costituirà un problema in seno al giovane stato balcanico.

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