Nuove ombre sull’industria della moda: trovata la tessera identificativa di un prigioniero cinese “cucita” all’interno di un cappotto


Nuove ombre sull’industria mondiale del “fast fashion”, la moda low cost che popola le gallerie dei nostri centri commerciali e le vetrine delle strade di tutto il mondo. Per anni, infatti, organizzazioni internazionali e volontari hanno sostenuto come sia pratica largamente diffusa da parte delle aziende e delle società di moda a basso costo di subappaltare la produzione dei propri capi ad industrie senza scrupolo, che fanno largo utilizzo di manodopera a basso costo, in alcuni casi, addirittura, a costo zero.

Parrebbe essere proprio questo il caso di un capo d’abbigliamento, un cappotto, venduto da una ditta di moda britannica, acquistato da una inconsapevole cittadina inglese, che è giunto nelle mani dell’acquirente con la tessera identificativa di un prigioniero cinese, con tanto di foto segnaletica, cucita all’interno fodera.

L’indumento ha il marchio Brave Soul, di proprietà della ditta Whispering Smith, con sede Manchester, che non ha mai fatto mistero di esternalizzare parte della sua produzione proprio in Cina e in altri mercati dotati di di manodopera a basso costo.

Il cappotto, costato 49 sterline, circa sessanta euro, è stato acquistato online e consegnato all’acquirente, una donna di 24 anni di Norwich, infermiera di professione, la quale ha subito allertato le autorità ed ha denunciato l’accaduto con un post sui propri profili social.

Interrogata sulla scoperta, la donna ha osservato come “Questa potrebbe essere una richiesta di aiuto da parte di un prigioniero del regime cinese costretto a lavorare, un vero e proprio schiavo, una condizione terrificante. Io lavoro nel servizio sanitario nazionale e mi interessa che le persone abbiano una vita migliore“.

Il caso ha ovviamente scatenato un turbine di polemiche e di richieste di indagini da parte delle organizzazioni internazionali. Un portavoce di Amnesty International ha dichiarato che “Le aziende hanno la responsabilità di rispettare i diritti umani durante le proprie operazioni in Cina e in qualsiasi altra parte del mondo. La chiave per far sì che ciò accada è impegnarsi nella “due diligence”, fornendo adeguate garanzie sul rispetto dei diritti umani per prevenire il rischio di impattare negativamente sulle vite delle persone attraverso il loro lavoro, le relazioni commerciali e all’interno delle varie catene di valore. Esortiamo il governo britannico a considerare la possibilità di rendere questa attività di due diligence obbligatoria per le aziende nazionali che operano all’estero“.

I portavoce della campagna Labour Behind the Label hanno inoltre chiesto al governo britannico di mettersi al lavoro per formulare una normativa in grado “di garantire che i prodotti acquistati dai consumatori non siano contaminati dalla schiavitù“.

L’azienda produttrice del capo d’abbigliamento incriminato, Whispering Smith, non ha risposto alle richieste di commento da parte dei media internazionali, sulla falsariga di quanto fatto da altre aziende del settore del fashion colte sul fatto in precedenza.

Nel 2015, ad esempio, un gran numero di clienti di Primark ha affermato di aver trovato messaggi di vittime cinesi di abusi dei diritti umani cuciti nei vestiti, accuse puntualmente respinte al mittente dai portavoce del marchio, che hanno etichettato tali voci come “bufale”.

Vari reporters d’inchiesta si sono resi protagonisti di indagini giornalistiche tramite le quali si è stato in grado di provare come il regime Cinese utilizzi ormai da anni le persone imprigionate nei propri campi di rieducazione per motivi politici, ideologici o, in alcuni casi, come ad esempio per la popolazione Uighura, etnici, come forza lavoro non retribuita. Manca tuttavia quello che può essere definito come “anello finale” di una eventuale catena di responsabilità: la prova del fatto che le aziende occidentali di fashion stiano utilizzando tale sistema e che, soprattutto, lo stiano facendo in maniera consapevole.

La domanda che emerge da questa vicenda, tuttavia, resta, ed è di bruciante e straziante attualità: la vita, i diritti umani, la dignità di un prigioniero politico che vive di stenti a migliaia di chilometri di distanza da noi, valgono davvero solo i sessanta euro spesi per l’acquisto di un cappotto?

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