Un uomo chiamato Ahmad Rabbani, un ex tassista che viveva e lavorava a Karachi, in Pakistan, è stato finalmente rilasciato da Guantanamo Bay dopo 17 anni di prigionia, dopo essere stato scagionato da tutte le accuse e riconosciuto come “completamente innocente” dalle autorità statunitensi.
Il rilascio dell’uomo, che era ormai da anni l’obbiettivo principale di molte associazioni umanitarie e per i diritti civili, è stato annunciato lo scorso venerdì sera da Reprieve, una ONG che si occupa da anni di casi come il suo.
Secondo Reprieve, il caso di Rabbani è frutto di un semplicissimo scambio di identità, un semplice errore che ha causato sofferenze e dolore ad un uomo completamente innocente. Rabbani era infatti stato identificato nel 2002 come un pericoloso ricercato, chiamato Hassan Ghul, dalle autorità pakistane, ed in seguito letteralmente “venduto” al personale americano di stanza in Pakistan. “Anche se si resero presto conto di aver catturato l’uomo sbagliato, lo portarono in ogni caso in Afghanistan e lo torturarono nei “Black Sites” – i “siti neri” statunitensi dove ai militari è concessa mano libera sui prigionieri e dove, secondo centinaia di reports, venivano quotidianamente commesse atrocità ai danni dei detenuti – per quasi due anni, senza alcun processo, senza alcuna prova a sostegno delle accuse mossegli e senza alcun rispetto per i suoi diritti umani“, si legge all’interno del comunicato stampa di Reprieve. “Gli abusi a cui è stato sottoposto sono stati ampiamente documentati nel rapporto sulla tortura sottoposto tempo fa al Senato degli Stati Uniti, la sua situazione era insomma ben nota alle autorità da molto tempo“.
Secondo l’indagine fatta dal New York Times su questo scioccante caso di violazione dei diritti umani, Rabbani e suo fratello furono catturati in un raid a Karachi nel settembre 2002. Dopodiché sono stati detenuti per circa 550 giorni in Afghanistan sotto la custodia della Central Intelligence Agency, salvo poi essere trasferiti a Guantánamo Bay nel 2004. “La Guantánamo Review Task Force aveva raccomandato che i due fossero sottoposti a giusto processo per accertare le loro effettive responsabilità, ma il caso non è stato mai portato avanti, ed i fratelli sono rimasti lì dove si trovavano“, ha riferito il giornale.
Il quotidiano Los Angeles Times aveva chiesto a Rabbani di condividere la sua esperienza già nel 2018, con un documentario realizzato grazie all’intermediazione delle principali associazioni umanitarie operanti negli Stati Uniti. All’interno del documentario, Rabbani ha testimoniato per iscritto di essere stato “catturato dal governo pakistano senza alcuna prova, e venduto alla CIA semplicemente per incassare una taglia“.
“[Gli americani] mi portarono in uno dei loro “siti neri” a Kabul, conosciuto come la “prigione nera”, dove mi hanno ammanettato con le mani sopra la testa per giorni e giorni“, ha scritto. Secondo fonti anonime Rabbani avrebbe addirittura cercato di tagliarsi le mani, durante la prigionia, per porre fine allo straziante dolore provato.
Dopo essere tato trasferito a Guantanamo, l’uomo sarebbe stato sottoposto a trattamenti profondamente umilianti, lesivi della sua dignità umana ed a frequenti percosse, fino ad essere costretto, a quanto pare, a smettere di mangiare, poiché “incapace di smettere di vomitare sangue”.
La baia di Guantanamo si trova al largo della costa di Cuba ed è territorio americano dall’inizio del 1900. È stata trasformata in un campo di prigionia, una sorta di pozzo nero “fuori da ogni ordinamento giuridico e da ogni concetto di legalità”, dato che gli Stati Uniti avevano bisogno di un posto per detenere i sospetti terroristi senza assicurare loro alcun diritto.
“In patria e nel mondo, Guantánamo è diventata un simbolo di ingiustizia, abuso e disprezzo per lo stato di diritto“, secondo l’ACLU, l’Associazione Americana per le Libertà ed i Diritti Civili.