«La morte di Ornella è l’ennesima dimostrazione che il femminicidio non è preso sufficientemente in considerazione dal Governo e che è frutto di un anno pieno di tensioni e stress dovute al Covid e alla convivenza forzata con uomini violenti».
A parlare è Tania Castellaccio, responsabile Area Accoglienza Donne della cooperativa sociale Dedalus di Napoli. Alla luce dell’ultimo caso avvenuto nel capoluogo partenopeo (la morte di Ornella Pinto, insegnante di sostegno di 39 anni ammazzata a coltellate dal compagno sabato scorso), la Castellaccio – che si occupa di antiviolenza dal 2001 – punta i riflettori sulla necessità di affrontare il fenomeno in maniera non più emergenziale.
«La violenza è strutturale, servono maggiori risorse e strumenti per contrastarla e i dati in forte aumento in quest’ultimo anno parlano chiaro. Tante le storie di violenza che abbiamo preso in carico, come una 27enne straniera maltrattata dal compagno di 53 anni o una giovane napoletana madre di due figli di cui uno neonato che il marito, ora in prigione, aveva minacciato di lanciare dal balcone».
A Napoli l’ennesima vittima di femminicidio. Cosa prova?
«Rabbia e avvilimento. Mi sono detta: eccone un’altra. Nel 2020 in Italia sono morte 91 donne, di cui 21 nel periodo di lockdown tra maggio e giugno. Un effetto domino insomma. Ornella, che lascia un figlio di 3 anni, è l’ennesima donna che muore per mano del proprio partner. Di sicuro avrà denunciato in passato alle forze dell’ordine. Ma serve di più».
Cosa?
«Anzitutto il Governo deve stanziare più fondi per aumentare i centri antiviolenza e i luoghi di protezione per le vittime sul territorio, ma soprattutto si deve investire sull’inserimento lavorativo delle donne che subiscono violenza».
Tracciamo un bilancio di quest’anno di pandemia per le vittime?
«Il lockdown e la situazione di convivenza forzata per molte donne sono stati devastanti e hanno avuto gravi ripercussioni sul rapporto con i partner violenti. Oltre alla tensione per la perdita di un lavoro e allo stress dovuto alla quarantena le donne hanno dovuto fronteggiare i maltrattamenti quotidiani di mariti e compagni».
Cosa dicono i dati?
«Sono allarmanti. Si è registrato un aumento esponenziale dei casi di violenza, legati alla pandemia e al conseguente lockdown, che ha determinato come dicevo la coabitazione forzata delle vittime con gli autori delle violenze. Il 2020 ha visto un’impennata delle richieste di aiuto: il numero delle chiamate al 1522, sia telefoniche che via chat, nel periodo compreso tra marzo e ottobre è notevolmente cresciuto rispetto all’anno precedente (+71,7%), passando da 13.424 a 23.071 a livello nazionale. Le richieste di aiuto tramite chat sono addirittura triplicate, passando da 829 a 3.347 messaggi. In Campania le chiamate al 1522 sono aumentate dalle 1.355 del 2019 alle 1.947 del 2020. In forte crescita anche i femminicidi. Secondo il VII Rapporto Eures in Italia nel 2020 sono state uccise 91 donne e per la quasi totalità dei casi (81) il femminicidio è avvenuto nel contesto familiare. Ben 21 di queste donne sono state uccise nel trimestre di lockdown più rigido, cioè tra marzo e giugno dello scorso anno».
Come intervenire di fronte a questi numeri?
«Credo sia evidente che non sono sufficienti le leggi di cui l’Italia dei centri antiviolenza dispone: vanno approntati interventi che prevedano anche il rafforzamento dei percorsi di emancipazione e inserimento nel mondo del lavoro e investimenti in maniera strutturale di risorse vere. Il recovery fund potrebbe essere un’occasione unica per risolvere il gender gap e il divario nord-sud. Ma leggendo attentamente il piano, alle dichiarazioni d’intenti si contrappone il fatto che alle parità di genere si destinano poco più di 4 miliardi. Insomma si sta rischiando di perdere un’altra occasione reale per superare la discriminazione che colpisce le donne».
Attualmente qual è la situazione a Napoli?
«Le nostre case rifugio Karabà e Fiorinda e il nostro centro antiviolenza Kintsugi a Mugnano hanno lavorato anche durante il lockdown per garantire supporto alle donne, ma la situazione attuale richiede soluzioni sistemiche. I tirocini, infatti, con il primo lockdown sono stati sospesi dalla Regione per il rispetto dei protocolli legati al contenimento del contagio e in molti casi non sono stati ripresi per il ricorso alla cassa integrazione da parte delle aziende, considerata incompatibile con i primi».
E l’attività dei centri antiviolenza?
«Le vittime possono fare affidamento sulle operatrici che continuano ad essere militanti ma a titolo volontario, dato che l’avviso pubblico del Comune uscito a febbraio durerà solo 6 mesi. Anche questa è una falla del sistema, perché il contrasto alla violenza di genere non può durare un semestre, né può dipendere da trasferimenti di fondi – già pochi – da un ente all’altro (Regione-Comune-ambiti territoriali) rallentandone di conseguenza l’erogazione».