«La funzione di un garante? Dovrebbe essere quella di salvaguardare e tutelare la salute dei detenuti, ma a me non basta. Io vado oltre». Sono passati decenni da quando Pietro Ioia, oggi 61enne, faceva chiamare i giornalisti da suoi familiari mentre era rinchiuso in cella. Chiamate che miravano a denunciare le pecche del mondo carcerario, di quel mondo che spesso non assolve al suo compito, come prescrive l’articolo 27 della Costituzione italiana (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”). Pietro, ex narcotrafficante che ha “abitato” per 22 anni e 6 mesi le carceri di Napoli e della Campania, ma anche della Spagna oggi è un uomo diverso. Quindici anni fa ha fondato l’Associazione Ex Don (Ex Detenuti organizzati napoletani). Da allora il suo cammino verso la giustizia e la difesa dei diritti umani è stato tutto in salita. Tanto che un anno fa è stato insignito del Premio Stefano Cucchi per le sue battaglie a tutela dei diritti dei detenuti. Ma non solo. Ha scritto un libro, “La Cella Zero” (edito da Marotta e Cafiero), dove denuncia i pestaggi avvenuti ai danni dei carcerati nel penitenziario di Poggioreale a Napoli tra 2013 e 2014. Una denuncia cui si sono unite quelle di un’altra cinquantina di ex galeotti, che ha portato a un processo dove sono attualmente imputati 12 agenti di polizia penitenziaria. Ioia, che ha cambiato vita e ha scelto di aiutare gli altri a cambiarla, è dal dicembre 2020 il Garante dei detenuti del Comune di Napoli.
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“Salvaguardare la salute dei detenuti a me non basta” – Intervista a Pietro Ioia
Che cosa fa un Garante?
«Si occupa di assicurare che un detenuto sconti una carcerazione dignitosa. Ma io sin dall’inizio ho preferito andare oltre questa funzione».
In che senso?
«Sono diventato un punto di riferimento per i carcerati, le loro famiglie, i medici interni ai penitenziari di Poggioreale, Secondigliano e Nisida».
Com’è il bilancio di quest’anno di pandemia?
«Ovviamente critico. Insieme al Garante regionale Samuele Ciambriello siamo dovuti intervenire facendo talvolta da intermediari per sedare rivolte com’è accaduto a Secondigliano».
Rivolte per cosa?
«I detenuti erano terrorizzati dal Covid. Si chiedevano cosa sarebbe accaduto se uno di loro avesse manifestato sintomi come la febbre. Tenuto conto delle condizioni in cui vivono nelle celle, spesso anguste per 10-12 persone».
La pandemia ha costretto per ovvie ragioni a sospendere i colloqui. Come avete sopperito?
«Nelle carceri napoletane in zona arancione i colloqui tra detenuti e familiari si sono svolti nel rispetto delle restrizioni anti Covid e solo per i residenti nel Comune di Napoli. Poi siamo riusciti a ottenere alternative per mantenere un minimo di legame con le famiglie, consentendo le videochiamate. Ma restano altri problemi».
Quali?
«Anzitutto il sovraffollamento. Ormai è cronico. A Poggioreale, ad esempio, su una capienza di 1.600 persone ve ne sono 2.100. Una differenza di 500 detenuti, il numero di quelli che invece dovrebbero stare in un moderno carcere. Con l’attuale direttore di Poggioreale Carlo Berdini si stanno facendo molti passi avanti, specie in termini di organizzazione. Nell’affrontare l’emergenza sanitaria infatti sono stati predisposti due padiglioni Covid center».
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Altri problemi?
«Il diritto alla salute per i detenuti viene spesso calpestato. Mi arrivano centinaia di denunce, richieste, segnalazioni ogni giorno del tipo “Pietro, mio marito ha avuto un infarto, potete informarvi? A me non dicono nulla”. Ecco, io fungo da cerniera tra il mondo esterno e il sistema carcerario, perché ho vissuto quell’inferno. Già prima la situazione era difficile, ora con il Coronavirus è peggiorata perché sono state sospese tante visite specialistiche».
Lei segue anche i giovani detenuti di Nisida. Com’è la situazione lì?
«Oggi ci sono una quarantina di ragazzi che fanno corsi di ceramica, di pizzaiolo, di pittura e tanto altro. Il vero problema è quando escono e vengono abbandonati».
Si spieghi meglio.
«Vede, ricordo Emanuele Sibillo (il baby boss della cosiddetta paranza dei bambini ucciso in un agguato il 2 luglio 2015 a soli 19 anni, ndr). Quando era a Nisida studiava per diventare un giornalista. I suoi educatori lo ricordano come un ragazzo molto in gamba. Ma mi chiedo: se qualcuno avesse seguito lui come altri ragazzi dopo aver scontato la pena, forse tutto sarebbe stato diverso? Chiaro che questi giovani una volta fuori dal carcere diventino preda della malavita, perché non c’è stato nessuno che abbia dato loro una seconda chance, magari un giornalista che gli avrebbe insegnato questo lavoro».
Un messaggio per i detenuti e i loro familiari?
«Ai primi dico: il mio sogno è che usciate dal carcere come persone diverse, secondo quanto prevede l’articolo 27 della Costituzione. Alle loro famiglie invece: non portate droga in carcere, per questo c’è l’arresto immediato. Solo così potremo dire di aver vinto la guerra».