<em>«Chi ha commesso quelle azioni è una persona frustrata. Ma va detto che, per fortuna, ci sono tanti agenti che sono padri di famiglia anche con i detenuti».
Emanuela Belcuore, giornalista nata a Napoli ma casertana d’adozione, dal 20 giugno 2020 è il garante dei detenuti della provincia di Caserta. Intervistata da Magazine Pragma, interviene sui fatti accaduti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, il giorno dopo la decisione del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) d’intesa con la locale Procura della Repubblica del trasferimento di circa 30 detenuti del Reparto Nilo dell’istituto di pena, dove il 6 aprile 2020 avvennero violenti pestaggi di reclusi da parte della polizia penitenziaria.
I reclusi sono stati trasferiti in altre carceri campane tra cui Carinola (Caserta) e Ariano Irpino (Avellino) e in istituti di altre regioni, come Modena, Civitavecchia e Perugia. Il provvedimento arriva dopo quello di sospendere 25 agenti che non erano stati attinti da misura cautelare, pur essendo indagati e che sono rimasti a lavoro nel carcere casertano a contatto con detenuti vittime delle percosse.
«Per un anno denuncianti e denunciati sono stati faccia a faccia – sottolinea la Belcuore – e ora si prende questa decisione nel momento in cui gli agenti coinvolti nei pestaggi stanno quasi tutti al carcere, ai domiciliari o sono stati sospesi. Ora non ha più senso, anzi avrebbe avuto senso spostare gli agenti. Ho capito che questa cosa è stata fatta per tutelare i detenuti, ma è un danno oggettivo per i loro familiari, che non possono più incontrare i propri congiunti in carcere e devono sobbarcarsi spese enormi e lunghi viaggi. Peraltro gli agenti del carcere sono sotto organico, per cui i familiari hanno difficoltà a prenotare i colloqui», aggiunge.
Lei è stata nominata garante un anno fa. In particolare nella provincia di Caserta la sua era una figura mancante in un territorio che conta quattro istituti di pena per un totale di oltre 1.500 reclusi. Come si è avvicinata a questo mondo?
«Già da alcuni anni svolgo attività di volontariato nelle strutture carcerarie casertane. In particolare all’istituto di pena di Arienzo, ma anche Poggioreale, Secondigliano e Ariano Irpino ho avviato con successo laboratori di scrittura creativa e corsi di giornalismo, per poi diventare un vero e proprio punto di riferimento per i detenuti e le loro famiglie e creare un ponte tra le loro esigenze e la direzione delle strutture carcerarie».
Qual è stata la prima richiesta in carcere?
«Mi fu chiesto di avere un orologio nella sala detenuti. Spesso non hanno le cose più semplici».
Che reazione ha avuto dopo aver visto le immagini dei pestaggi a Santa Maria Capua Vetere?
«La prima senz’altro di delusione. Vedo anch’io quegli agenti ogni giorno e le immagini in particolare delle botte al disabile mi hanno scossa. Poi mi sono imbestialita, quando il giorno dopo la diffusione del video i detenuti non hanno potuto vedere la televisione, né sono stati loro distribuiti i giornali che ricevono quotidianamente e per i quali pagano. Mi sono chiesta perché proprio all’indomani del polverone mediatico».
La sua prima volta al Reparto Nilo?
«Mi fu detto “dottoressa, non entri perché sono pericolosi”, facendo riferimento ai reclusi. Una volta entrata mi colpirono quei volti che mi fissavano straniti. Tra loro c’erano alcuni che avevano partecipato a una rivolta e chiesi chi fossero. Da quel momento ho instaurato con loro e con i familiari un dialogo, al fine di far ascoltare e dar voce alle loro esigenze».
Cosa pensa di chi ha commesso quelle azioni pur indossando una divisa?
«Sono persone frustrate e sono le stesse che incontro ogni giorno. Ma se con i detenuti non usi l’arma della comunicazione, allora hai fallito. Per fortuna ci sono tantissimi agenti che all’esterno sono padri di famiglia e trattano come figli gli stessi detenuti».
Cosa dovrebbe essere il carcere?
«Non una discarica sociale, ma il riutilizzo di braccia e menti. Bisogna ridare un’opportunità a queste persone, non discriminarle una volta uscite dal carcere».
Cosa non va allora in questo sistema?
«La non rieducazione. Spesso manca il ponte tra l’interno e l’esterno. Una volta scontata la pena, il detenuto si ritrova emarginato. Non c’è nessun imprenditore disposto a dare una seconda chance a chi ha sbagliato. Da qui la grande difficoltà, una volta fuori, di trovare lavoro ed essere reinserito nel tessuto sociale».
Quali sono le altre falle?
«La burocratizzazione della magistratura. La mancanza di operatori nell’area sanitaria. La carenza della formazione: partire dalla turnazione dei volontari anche di pomeriggio per coprire tutte le ore. Basta riflettere su un dato: i suicidi avvengono soprattutto nelle ore pomeridiane. Infine la sessualità in carcere dovrebbe essere un diritto. Ci dovrebbero essere delle aree preposte per le relazioni affettive, come avviene in tutti i Paesi civili (sono 13 le nazioni che lo prevedono e riconoscono: Albania, Austria, Belgio, Croazia, Danimarca, Francia, Finlandia, Germania, Norvegia, Olanda, Spagna, Svezia, Svizzera). In questo modo si abbatterebbe il problema dell’omosessualità indotta e soprattutto delle violenze».