<span id="more-252000">Nella notte tra il 2 e il 3 gennaio, il generale iraniano, Qassem Soleimani, è stato ucciso in un attacco portato avanti dal drone americano MQ-9 Reaper, conosciuto anche come Predator B. Quest’ultimo avrebbe sparato quattro missili contro due auto che trasportavano oltre all’alto esponente iraniano anche Abu Mahdi al Muhandis, leader della milizia irachena sciita Hashed, e pochi uomini della scorta. Trump ha twittato un commento sul raid rivendicando l’operazione militare e spiegando l’azione come la necessità di sventare altre minacce, visto il pericolo di attacchi iraniani imminenti. L’azione è stata intrapresa dopo due giorni di riunioni top secret, dove alla fine hanno prevalso i “falchi” e dopo giorni di sorveglianza molto stretta, con l’utilizzo di intercettazioni e velivoli spia, al generale iraniano. Il Congresso si è dimostrato profondamente diviso per l’azione spregiudicata di Trump e non sono mancate forti condanne da parte democratica.
La figura di Qassem Soleimani, lo stratega di Teheran
Soleimani può essere considerato il vero architetto della politica estera iraniana, colui che per oltre 20 anni ha tessuto le trame rivoluzionarie fuori dal paese, tenendo viva la fiamma degli ayatollah negli sciiti della regione. Nato nel 1957 a Rabor, nell’est dell’Iran, da una famiglia contadina poverissima, entra nel 1979 a far parte delle falangi di volontari che si uniscono ai ranghi dei Guardiani della Rivoluzione, le unità di base delle milizie dell’ayatollah Khomeini. Dopo la rivoluzione partecipa alla guerra contro l’Iraq, distinguendosi per la repressione dei curdi iraniani. In seguito, dopo un periodo di messa in ombra da parte dell’ayatollah Rafsanjani (presidente dell’Iran dal 1989 al 1997), ritorna sotto i riflettori con la nomina di comandante delle milizie Al Quds, le forze d’élite dell’esercito iraniano incaricate di compiere operazioni all’estero. È proprio alla guida di queste che comincia a prendere corpo in lui l’idea di militarizzare le minoranze sciite nel levante arabo per arrivare alla conquista della “Mezzaluna sciita”, fino al mar Mediterraneo. A partire dalla nascita nel 1982 di Hezbollah, in Libano, con cui tesse profonde relazioni e soprattutto con la disgregazione dell’Iraq post-Saddam Hussein, Soleimani vede grandissime opportunità per realizzare il suo piano. Considerato l’ideatore della “guerra ibrida”, un misto di guerriglia, attentati, propaganda e tecnologie avanzate, nell’ultimo periodo era divenuto l’uomo-chiave del sostegno iraniano a Bashar Assad per contrastare i ribelli dopo le rivolte del 2011. Uomo profondamente stimato e rispettato, era considerato da molti uno dei possibili candidati alle prossime elezioni presidenziali.
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La reazione iraniana
In Iran sono stati proclamati 3 giorni di lutto per commemorare il generale, considerato da molti iraniani e sciiti in generale, un eroe e difensore della sicurezza nazionale. Le piazze della capitale, Teheran, e di molte altre città sono state invase da folle di persone che hanno protestato contro i “crimini americani” con il tradizionale grido di “Morte all’America”. La Guida suprema Ali Khamenei ha annunciato che la risposta iraniana sarà “una dura vendetta al momento opportuno e nel posto giusto”. Nel frattempo il regime sta caricando la molla mediatica in modo da creare il clima favorevole e la giusta immagine di sottofondo affinché il contrattacco sia giudicato legittimo. Mentre si celebravano i funerali, un nuovo comandante delle milizie Quds, il generale Esmail Qaani, è stato nominato, dimostrando come Teheran sia pronta in qualsiasi momento a una risposta immediata e in grado di mobilitare gli alleati regionali. In Libano, il capo di Hezbollah ha promesso pesanti ripercussioni mentre le milizie Houthi, in Yemen, stanno cominciando a preparare la reazione auspicando grandi rappresaglie. In Iraq il leader sciita ha dato ordine ai suoi di tenersi pronti, e anche formazioni pakistane e afghane di ispirazione sciita sarebbero pronte a intervenire.
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Le preoccupazioni degli osservatori internazionali
La reazione della comunità internazionale è stata immediata, nonostante lo spaesamento iniziale. Putin ha parlato subito di un pericoloso aggravamento della situazione con un pesante aumento della tensione nella regione. La Cina dal canto suo ha fatto appello alla calma da parte di tutti, specialmente degli Stati Uniti. Israele nel frattempo ha elevato lo stato di allerta, e Nethanyau ha deciso di interrompere la sua visita in Grecia per rientrare immediatamente in patria. Da parte degli alleati europei, Francia a Germania, sono arrivate le prime tiepide critiche. La ministra francese per gli Affari Europei Amelie de Montchalin ha dichiarato che il mondo è ora “più pericoloso”, mentre il governo tedesco ha espresso profonda preoccupazione per l’escalation in atto. L’Italia si è mantenuta prudente, intervenendo tramite il ministro degli Esteri Luigi Di Maio che ha affermato di sostenere l’invito dell’Alto Rappresentante Ue, Borrell, secondo cui la priorità è la massima moderazione possibile perché un’altra crisi rischierebbe di compromettere gli anni di sforzi per stabilizzare l’Iraq. Per il titolare della Farnesina la lotta allo Stato islamico è la priorità principale e in questo modo ha di fatto ignorato, almeno per il momento, la nota dell’ambasciata della Repubblica islamica dell’Iran in Italia che chiedeva una ferma condanna dell’azione americana.
Il problema è adesso come l’Iran deciderà di rispondere e soprattutto dove e con quali mezzi. Molti analisti ritengono che l’ipotesi più probabile si quella di una risposta “simmetrica”, ossia un bersaglio di elevato livello, sempre in territorio iracheno. Resta il fatto che la tensione è ai suoi massimi storici e la risposta avrà un impatto sul Medio Oriente e sulla politica internazionale del mondo intero.