La mafia uccide solo d’estate


Oltre “Le Iene” c’è di più, se si guarda al percorso professionale di Pier Francesco Diliberto, più noto come Pif (fu la Iena Berry che gli affibbiò l’acronimo ormai divenuto un marchio di fabbrica); scultori famosi nel suo albero genealogico, il padre regista, diviene prima autore televisivo e poi si espone comparendo in video per le Iene ma non solo. Vj e testimonial pubblicitario, è meno conosciuto al grande pubblico per il suo impegno nel cinema d’autore (un titolo su tutti: “I cento passi” come aiuto regista di Marco Tullio Giordana); si concede un ruolo di interprete in “Pazze di me” e, nello stesso anno, debutta nella regìa di “ La mafia uccide solo d’estate ”.

La locandina stessa ci dice che è una commedia, ambientata negli anni in cui “la mafia non esiste”, con l’immagine di un bambino sorridente in veste di Andreotti, con tanto di occhiali e orecchie posticce; una commedia sull’amore di due bambini che si rincorrono tra le timidezze e l’inesperienza dell’età,  mentre l’io narrante, ormai adulto, cerca di non farsi sfuggire l’ultima occasione che la vita gli riserva per conquistare l’amato bene.

Lo spettatore entra, così, nel viaggio a ritroso di Arturo in una Palermo assai lontana dalle esterne desolate di “Via Castellana Bandiera”, ma anzi  solare ed elegante nella vocazione greco-romana di certi suoi scorci; una città che funge da colorato scenario all’incontro di Arturo con la Storia e coi i suoi personaggi di spicco: un simpatico signore che è vicino di casa della sua amata Flora e che spesso va a lavoro accompagnato da altri tre uomini (Rocco Chinnici); oppure un signore gentile che in un bar  gli fa assaggiare le iris con la ricotta (Boris Giuliano); o ancora l’intervista ad un tizio molto severo, in un grande ufficio che non aveva nessuna sorveglianza (il generale C. A. Dalla Chiesa); o, infine, il politico di razza  che torna sull’isola a forma di tridente per spiegare alla popolazione tutta che “l’Europa non può fare a meno della Sicilia”. Dialoghi leggeri, pieni di ironia significante (la prima parola di un Arturo pigro è “mafia”), belli i colori e le inquadrature, il ritmo è veloce e la visione di questa entità “che non esiste” viene rappresentata dalla ferocia, mai pulp ma anzi  volutamente ammantata di stupidità, di Zu Totò (Totò Riina), di Leoluca Bagarella e di tutto il clan dei Corleonesi.

Poi la Storia finisce e diventa cronaca: ed è la storia dello spettatore, che arriva dritto al cuore e allo stomaco e gli riporta i suoi morti e le immagini di lapidi commemorative di giornalisti, uomini di scorta, prefetti e politici; fotogrammi di autostrade divelte dal tritolo a Capaci e appartamenti sventrati dalle bombe cattive di Via D’Amelio, nascoste sotto gli occhi di tutti.

Funerali di Stato e volti vetusti di una politica inerme quando non collusa, intervallati dalla corsa di Arturo e Flora e il loro bimbo in braccio a spiegare gli eventi perché “Un genitore deve proteggere il figlio dal male, ma deve anche insegnargli a riconoscerlo”.

Non si può, dunque, che concordare con Giuseppe Borrone quando auspica che “il film andrebbe inserito nei programmi di educazione civica di tutte le scuole italiane”.

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