“ Malamusica” Neomelodia e legalità di Michelangelo Pascali – intervista


Michelangelo Pascali è ricercatore di Sociologia generale presso l’ Università degli Studi di Parthenope ed ha presentato di recente il suo ultimo saggio dal titolo Malamusica – Neomelodia e legalità per Liguori editore.

Malamusica, l’accezione “mala”  al termine “musica” esplicita già nel titolo di questo lavoro, un indagine laboriosa, profonda, volta a squarciare ed analizzare  il sentire comune che identifica il filone neomelodico come rappresentazione di  degrado e disagio sociale.Difatti rappresenta un’attività di ricerca intenta ad analizzare luci e ombre, punti di vista noti e meno, perché solo con un approccio scientifico, onesto scevro da qualsiasi premeditazione, si può avere una visione più ampia della connessione tra musica neomelodica e criminalità e di come una influenza l’altra. Questa è il tentativo messo in atto da Michelangelo Pascali come lui stesso ci racconta nell’intervista che segue.

 

Dove nasce, lo sprono per parlare di relazione tra musica neomelodica e criminalità?

In premessa, devo dire che come studioso sono molto interessato alle realtà del nostro territorio, sia per le caratteristiche singolari che lo contraddistinguono (e che appaiono talora un residuo talaltra un’anticipazione di dinamiche più generali) sia in ossequio all’idea del dover essere intellettuale attivo nella società in cui ci si muove. Inoltre, occuparsi di devianza e di criminalità permette di accedere a un punto di osservazione spesso privilegiato, in quanto indicativo di un quadro più ampio.

Nello specifico, l’intenzione di approfondire la relazione tra musica neomelodica e criminalità, al fine di rintracciarne caratteri reali ed, eventualmente, attribuzioni improprie, è nata proprio dinanzi a una diffusa narrazione collettiva che tracciava un rapporto organico e quasi ‘inevitabile’ tra i due fenomeni, sia da un punto di vista soggettivo che con attinenza ai contenuti delle canzoni neomelodiche stesse. Contemporaneamente, approfondire tali aspetti permetteva di osservare e riflettere su un certo atteggiamento di una parte della società rispetto non solo e tanto a fatti criminali ma anche e soprattutto all’area della marginalità e del disagio sociale. Nel corso della mia ricerca è emerso, infatti, che il giudizio presente, per molti aspetti, assume i caratteri del pre – giudizio (con tutto quello che ciò comporta), fatto che mi è apparso non solo limitante rispetto alla (comprensione della) varietà e complessità del fenomeno neomelodico ma diretto, volontariamente o involontariamente (consapevolmente o inconsapevolmente), a disconoscerne gli aspetti positivi.

 

– I neomelodici vengono osannati o ripudiati, opinioni distanti perché, secondo lei?

Ritengo che, almeno parzialmente, ciò possa dipendere dalla collocazione sociale di coloro che esprimono questi pareri, piuttosto che dal valore intrinseco delle singole cantate neomelodiche. Le parole così come lo sfondo delle canzoni, finanche il modo di atteggiarsi dei cantanti, richiamano un preciso ambiente sociale. L’approvazione o il rigetto verso tale musica risente dell’appartenenza o meno a questo ambiente e/o dal giudizio che di esso se ne trae. Proprio le indiscriminate reazioni di ripudio sui neomelodici non hanno probabilmente permesso di valorizzare appieno quanto di buono indubbiamente c’era in questa singolare manifestazione musicale (parlo al passato perché il fenomeno della musica neomelodica sembra sostanzialmente in declino), non solo rispetto a testi che, a mio avviso, fornivano indicazioni preziose in merito alle difficoltà e alle speranze di una certa soggettività sociale, ma anche in un’ottica di promozione di singoli artisti che presentavano, magari a prescindere dalle qualità dei testi che cantavano, indubbie doti canore e, dunque, in funzione di una diversa promozione della musica (anche) “napoletana”.

 

– I testi delle loro canzoni denunciano spesso un malessere esistenziale conseguente ai luoghi da cui provengono, utilizzano uno slang a volte comprensibile solo a pochi, c’è voglia di autoghettizzarsi in qualche modo?

In realtà, il linguaggio utilizzato a me pare più che altro la lingua naturale dei cantanti o del loro pubblico di riferimento. Ciò, almeno originariamente, giacché poi è divenuto un ‘modello’ seguito da interpreti pure di altre regioni, anche in naturale ossequio al napoletano come lingua acquisita della musica e ufficiale del vecchio Regno (oltre che con un occhio ai numeri e alla rilevanza del mercato partenopeo). Per questo, quella utilizzata non mi sembra tanto una lingua ricercata, anche artificiosamente, come in altri generi musicali, in cui tale ricerca assume una valenza fondativa. In alcuni e certo non rari casi potremmo, con una buona dose di approssimazione, definire il linguaggio adottato dai neomelodici come un napoletano declinato secondo le inflessioni e a volte gli stilemi della strada, ma anche in queste ipotesi non verrebbe necessariamente meno la caratteristica di naturalità. Quindi, più che la voglia di ghettizzarsi, la lingua usata è lo specchio, in parte, di un ghetto che già c’è e a cui generalmente si appartiene, quantomeno in prima istanza, non tanto per libera scelta.

 

– Il successo in  tv di serie come Gomorra sono la conferma a ciò che evidenza nel suo libro?

Premesso che il pubblico della serie televisiva “Gomorra”, anche in virtù degli specifici caratteri artistici di questa, è maggiormente interclassista rispetto agli ascoltatori della musica neomelodica, il vasto consenso che tale prodotto ha avuto rispecchia sicuramente una certa curiosità e anche una qualche affascinazione verso il mondo dell’illecito e, più ampiamente, verso le realtà delle periferie sociali. Pur con tutte le differenze i distingui del caso, può essere anche letto come conferma della vastità di certi fenomeni e della scarsa trattazione che spesso, tranne che da specifiche ottiche e con fini determinati, è dedicata loro.

 

– Pensa che il suo libro, scritto con un uso attento e adeguato delle parole, sarà recepito come era nelle sue intenzioni?

A volte, io considero un po’ i miei libri come messaggi lanciati in una bottiglia affidata al mare: sarà il caso e la voglia di chi la trova a giocare un ruolo. In qualche modo, nella mia scrittura rinvio un po’ a quello che Umberto Eco definiva il proprio “lettore ideale” (benché gli richiedo soprattutto la pazienza e la momentanea sospensione del giudizio, dato che le corpose note presenti esplicitano buona parte del percorso logico-culturale, e anche ‘suggestivo’, seguito). Per il libro in oggetto, sono stato felicemente colpito nel leggere alcune recensioni che avevano perfettamente colto il senso e i tormenti del lavoro. Posso dire che l’adozione di un linguaggio sicuramente impegnativo non è tanto dovuta a una scelta dettata dal gusto ma, piuttosto, è doverosa per la densità e le sfumature dei significati esistenti, peraltro in un avanzamento della conoscenza che è sempre necessariamente dubbiosa e provvisoria. In ogni modo, ferma restando l’importanza e anche l’imprescindibilità di diffondere un proprio punto di vista ricostruttivo e di alimentare in tal modo un pubblico confronto, bisogna avere coscienza del pericolo tante volte in agguato che alla (corretta) semplificazione del linguaggio possa corrispondere una (scorretta) semplificazione delle idee.

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