Con la reintroduzione delle sanzioni verso l’Iran, entrate in vigore da agosto dello scorso anno, sembra quasi che gli sforzi delle diplomazie per arrivare al Jcpoa del 2015 siano stati vani. Il barlume di speranza di una rappacificazione tra USA e Iran rappresentata dalla storica telefonata di Barack Obama, che aprì la strada al disgelo, sembra lontana anni luce e oramai svanita.
Il JCPOA
L’accordo, il Joint Comprehensive Plan of Action, siglato a Vienna il 14 luglio 2015 tra Iran, i cinque membri permanenti del consiglio di Sicurezza dell’ONU, la Germania e l’Ue, ed entrato in vigore nel gennaio del 2016 prevedeva che la Repubblica islamica avrebbe dovuto smantellare il suo programma di proliferazione nucleare, eliminare le riserve d’uranio e ridurre di due terzi le centrifughe a gas. In cambio sarebbero cessate le sanzioni economiche imposte da Usa, Ue e Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a causa del suo programma nucleare.
Ma Donald Trump, l’8 maggio 2018, ha annunciato a sorpresa di voler uscire dall’accordo perché, per la Casa Bianca, il regime di Teheran è il più grande sponsor del terrorismo e non avrebbe smesso di sviluppare missili e armi atomiche. “L’Iran” fanno sapere fonti della Casa Bianca, “ha sfruttato il sistema finanziario globale per sostenere il terrorismo, promuovere regimi spietati, destabilizzare la regione e abusare dei diritti umani del suo stesso popolo”.
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Cosa prevedono le sanzioni?
Le sanzioni prevedono il divieto per l’Iran di acquistare e fare transazioni in dollari USA; il divieto di trasferimento da e per il Paese di oro, preziosi e metalli, minerali come la grafite e software industriali; misure punitive nel settore delle automobili; l’Iran non potrà più acquistare aerei europei o americani; alimenti iraniani e prodotti da esportazione come i tappeti non potranno più essere venduti negli USA. Nelle intenzioni degli Stati Uniti, la reintroduzione delle sanzioni dovrebbe convincere Teheran a rinegoziare l’accordo costringendola a trattare anche su questioni che esulano dal nucleare come lo sviluppo del programma missilistico iraniano e l’aggressiva politica estera nell’area mediorientale.
Il danno economico all’Ue.
Quelle entrate in vigore ad agosto rappresentano “sanzioni secondarie”. Colpiscono in pratica soggetti non americani che intrattengono relazioni economiche e commerciali con Teheran. O queste cesseranno le loro attività o incorreranno nella minaccia americana di perdere il mercato statunitense e il rischio di multe salate.
Il “nuovo corso” delle decisioni di Trump sta danneggiando fortemente le imprese europee e soprattutto quelle italiane, dal momento che il nostro Paese ha in essere con Teheran un potenziale di investimenti pari a circa 30 miliardi di euro. L’interscambio Ue-Iran nel 2017 è stato infatti calcolato in 19 miliardi di euro e primo partner commerciale si è classificata l’Italia che ha realizzato un interscambio di oltre 5 miliardi.
La posizione europea
Per quanto abbia sempre reagito con dure critiche nei confronti dell’abbandono americano all’accordo sul nucleare, per ora l’Ue si è limitata aparole di condannae le opzioni a disposizione per proteggere le imprese dalla scure delle sanzioni americane non appaiono convincenti. Essenzialmente sono due gli strumenti messi in campo: la riattivazione del Regolamento di blocco del 1996 (una misura che impedisce alle aziende Ue di adeguarsi alle sanzioni secondarie USA) e l’estensione del mandato della banca europea degli investimenti(Bei) in grado di fornire garanzie sulle attività finanziarie degli investitori europei in Iran. Ma entrambe le misure risultano troppo poco convincenti. E già si cominciano a contare delle defezioni, a partire dalla tedesca Daimler che ha reso noto di aver cessato ogni attività in Iran seguito delle sanzioni. Anche le francesi Renault e Total hanno decretato fughe dal paese e da svariate joint venture.
Il nuovo meccanismo per aggirare le sanzioni
Francia, Germania e Regno Unito nel frattempo hanno avviato on nuovo meccanismo per permettere alle proprie aziende di commerciare con l’Iran senza incorrere nelle sanzioni. Il suo nome è SPV, Special Purpose Vehicle. Per farlo funzionare l’Iran dovrà ora creare un meccanismo simile per gestire le transazioni per conto delle aziende iraniane. Il funzionamento del meccanismo è basato sul sistema della permuta in modo da non creare scambio diretto di denaro né nel sistema SWIFT né in banche iraniane colpite da sanzioni.
Il caso italiano
E le imprese italiane? Per il nostro Paese ci sono in ballo petrolio, infrastrutture, meccanica e impianti ingegneristici. Dei quasi 2 miliardi che l’Italia sperava di portare a casa dagli scambi commerciali nel 2018, circa la metà è costituito da meccanica strumentale, che rappresenta più del 50% delle nostre vendite all’Iran. Le grandi industrie come Eni e Ferrovie dello Statohanno posto le basi per importantissimi contratti. La prima per la costruzione della linea Qom-Arak e Teheran-Hamedan e la seconda per la realizzazione di studi di fattibilità per l’estrazione di giacimenti petroliferi e gasiferi. Inoltre moda, ristorazione e design italiani sono molto apprezzati grazie anche all’enorme quota di cittadini under-30 che vivono nel Paese. Oltre a degli accordi già sottoscritti e ai protocolli d’impresa ci sarebbe quindi un potenziale d’investimenti altissimo e tale mercato è assai appetibile soprattutto per l’Italia che con una percentuale vicina al 3% è oggi l’ottavo fornitore di Teheran e il suo sedicesimo cliente.
Per il momento la posizione del governo italiano è quella del “vediamo che succede”. La delegazione italiana che avuto modo di discutere della situazione ai margini dell’incontro tra Trump e Conte ha ravvisato il problema nel coniugare l’asse con gli USA anti-iraniani agli interessi economici dell’Italia filo-iraniani.
La speranza, raccolta in diverse parti di un governo che in più di un’occasione si è dimostrato euro-scettico, sembra essere invece quella che stavolta l’Ue sia compatta e tenga testa a Trump puntando i piedi sul no alle sanzioni e mettendo in questo modo in difficoltà gli Stati Uniti.