Per tantissimi tifosi dell’Olimpia, passati attraverso memorabili battaglie, molte vinte, qualcuna persa, i titoli europei conquistati a Gent e Losanna, quello perso a Grenoble contro Cantù, di tutte le avversarie, può suonare strano ma una delle gare di cui ancora oggi si discute è gara5 della finale scudetto del 1989
Ha due significati particolari: fu quella dell’ultimo scudetto dell’era D’Anton – Meneghin- McAdoo, i tre giocatori che identificarono la dinastia milanese degli anni ’80, e fu una partita indimenticabile e con risvolti persino drammatici.
Quell’anno, l’Olimpia era una squadra a fine corsa: lo scudetto la spinse a prolungare di un’altra stagione l’esistenza del gruppo ma nel 1990 venne eliminata al primo turno da Reggio Calabria. Eppure nel 1989, riuscì ancora a reggere il colpo e spremere un ultimo scudetto dai suoi gladiatori. La semifinale contro Pesaro fu una battaglia senza esclusione di colpi che venne decisa tristemente a tavolino.
La Scavolini vinse gara1 ma la partita fu macchiata da un brutto episodio: una monetina lanciata dagli spalti colpì Dino Meneghin. Questi abbandonò il campo senza rientrare. Il giudice sportivo diede partita vinta a Milano che nel frattempo si era assicurata gara2 in casa (la semifinale si giocava al meglio delle tre partite).
Nell’altra parte del tabellone, la sorprendente Libertas Livorno guidata da Alberto Bucci – rivale storico dell’Olimpia – superò la Virtus Bologna 2-1. La finale era programmata al meglio delle cinque partite, fattore campo per i livornesi.
Livorno vinse gara1, Milano rispose in gara2 al Palatrussardi e poi in gara3 in trasferta. Ma il giorno di gara4 a sorpresa la Libertas targata Enichem sbancò Milano rinviando l’assegnazione dello scudetto alla quinta partita, nella bomboniera infuocata di via Allende a Livorno. 40 minuti di battaglia dei quali rimangono immagini indelebili: il tifo oltre ogni limite del pubblico, la strepitosa partita (22 punti) di Albert King, arrivato a metà stagione a Milano per finire la carriera e tra l’altro per un errore tecnico del tavolo in campo anche dopo il quinto fallo, il commovente tuffo del vecchio drago Bob McAdoo con il quale un contropiede facile di Alberto Tonut venne cancellato e convertito in una semplice rimessa in zona di attacco. Infine il finale di partita: l’errore dall’angolo dell’ariete isontino Roberto Premier sul +1 Milano, il contropiede di Livorno con il cronometro implacabile, il passaggio verticale di Alessandro Fantozzi per Andrea Forti e il facile lay-up di quest’ultimo. Ma prima o dopo la sirena?
I minuti successivi furono un incubo per tutti. Dapprima il canestro sembrò essere annullato, il pubblico invase il campo, scoppiò una rissa furibonda coinvolto più di tutti proprio R.Premier. Poi il canestro sembrò essere convalidato ed esplose la festa. La Rai chiuse il collegamento con la sovrimpressione “Livorno Campione d’Italia”.
Ma non fu così: nel chiuso di uno stanzino i cronometristi confermarono agli arbitri Belisari e Grotti che il canestro di Forti era stato realizzato una frazione di secondo dopo la sirena. A quei tempi non c’era l’instant replay che avrebbe tolto molti dubbi già allora. L’analisi dei fotogrammi televisivi confermò la scelta dei cronometristi. L’Olimpia tornò a Milano con il suo scudetto numero 24, la fine di un ciclo leggendario firmato da campioni commoventi per mentalità e spirito. Campioni Olimpia appunto. Uno di questi Mike D’Antoni, esattamente dodici mesi dopo la feroce battaglia di Livorno, avrebbe lasciato il basket attivo, intraprendendo una carriera da allenatore che l’avrebbe condotto oltre che a Treviso anche nella NBA, a Denver, Phoenix e New York. Quella carriera cominciò però nella tarda primavera del 1990. E trattandosi di Mike D’Antoni non avrebbe potuto cominciare altrove. Se non a Milano.
Tratto da: www.olimpiamilano.com