10 Aprile 1563 – Da oggi e, per sempre, partecipare alla Santa Messa, sarà diverso; una doppia grata la terrà lontana, insieme alle altre, dai fedeli che, ogni giorno, partecipano alle liturgie nella loro chiesa. Così, rese “invisibili” agli occhi del mondo (per volontà di Pio V e per mano di Antonio Carafa), accompagnano, durante le celebrazioni, il canto dei fedeli che, non potendo fare altro che ascoltarne le voci, immaginano le loro melodie, intrecciate all’unisono, con voci angeliche.
E’ il 6 Aprile del 1563 ed Antonio Carafa, visitando tutti i monasteri di Napoli, impone alle ospiti, di perseguire nel modo più assoluto i loro voti di “clausura”e “castità”, cominciando, così, ad osservare severamente quelle che sono le imposizioni dettate dal Concilio di Trento riguardo la vita monastica.
La Napoli del XVI sec. è stata definita dagli storici una vera e propria “Città Conventuale”, le istituzioni religiose sono più di 400, e i monasteri femminili, ben trenta. E proprio tra questi trenta, ve ne sono alcuni che risolvono brillantemente il grande problema delle ricche e nobili famiglie: “la figlia femmina”, la figlia non destinata alla successione, la figlia che non avrà mai “un buon partito” a chiederne la mano; é qui, in questi luoghi, dunque, che le importanti famiglie fanno a gara per stabilirvi la loro progenie, e il monastero ospite identifica, con il suo lustro, l’importanza dei lignaggi.
Sono i Caracciolo, i Pignatelli, i Carafa, i Minutolo, i De Sangro a portare nelle casse di queste istituzioni parte dei loro possedimenti e parte delle loro ricchezze; dunque luoghi dove le ospiti vivono nell’agiatezza e nel lusso, in stanze dal mobilio pregiato e dagli arredi sfarzosi, sono accompagnate da cameriere, usufruiscono di maestri di musica, e confessori strettamente personali, e soprattutto sono libere di uscire, di intrattenere ospiti, e spendere importanti somme per feste e concerti; una vita riservata, ma di lusso.
Possono essere definiti veri e propri avamposti della nobiltà fra le mura clericali, ed è proprio tra queste mura che si creano forti connivenze politiche, intellettuali ed artistiche.
Il più importante, non solo per la strategica ubicazione presso San Lorenzo Maggiore, è stato il Monastero di San Gregorio Armeno, divenuto nel XV sec. il centro della vita culturale e religiosa di Napoli. Un vero e proprio luogo simbolo, le cui monache, per Napoli, furono motivo di prestigio; qui, nei secoli, i nomi delle badesse Carafa, si sono alternati a quelli delle Caracciolo, e precisamente Fulvia Caracciolo, entrata in convento all’età di due anni, racconta, smarrita, il repentino adattamento alla vera e propria clausura, voluta a partire dal 1563.
E’ lei stessa ad occuparsi dei lavori di adattamento alle nuove leggi, per le quali le ampie camere vengono murate e fatte diventare anguste celle, l’installazione di altre ruote garantisce il passaggio di oggetti, si innalzano muri e si crea una doppia inferriata nel parlatorio affinchè le possibilità di contatto con l’esterno siano ridotte al minimo.
Ella racconterà nel suo manoscritto la disperazione di donne condannate ad eterna prigionia senza aver commesso alcun reato, la cui unica finestra sul mondo sarà data dai due ordini di terrazze che si affacciano sul mare dal cortile interno.
E’ in chiave diversa che ho voluto raccontare la storia del Convento e della Chiesa di San Gregorio Armeno che, sorto su quello che era l’antico tempio greco di Cerere impone nei luoghi intorno un’antica tradizione; è, infatti, alla Dea della fertilità, che ci si annunciava con statuine di terracotta; come ben sappiamo, Napoli è l’unica città che, passando sotto il dominio romano, resta greca, sia nell’impianto che nella lingua, per cui le tradizioni degli uni, continuano nella storia degli altri – è così che, intorno al tempio, si crea un quartiere artigiano che ha conservato nei secoli intatta la sua originalità, ed è così che le antiche statuine di terracotta hanno lasciato il posto agli insostituibili, inconfondibili e universali “PASTORI” del Presepe Napoletano.