Artemisia Gentileschi: “Ci sono opere che nascondono segreti!”

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E così accetta la tortura. Sì proprio così, la tortura. Vuol esser certa che il suo nome torni ad esser onorato e rispettato a Roma; e, solo con la tortura, usata come macchina della verità a cui la giustizia del suo tempo si affida, può far sì che le cose cambino.

Quando le cordicelle legate alle falangi delle sue mani tirano sempre di più affinché il dolore insopportabile sproni alla verità, quel che vien confermato è la violenza di Agostino Tassi perpetuata nel tempo

Così come è sempre accaduto e sempre accadrà in ogni tempo e ad ogni livello sociale, la Pittora, Artemisia Gentileschi, unico genio femminile del ‘600, viene paragonata ad una donna dai ‘facili costumi’ che ha come abitudine quella di accogliere ‘Ospiti’ in casa sua.

L’imputato avrebbe dovuto esser colui al quale Orazio Gentileschi affida sua figlia, con lo scopo di farle perfezionare la tecnica prospettica, ma nulla di tutto ciò accade.

Il Tassi si reca innumerevoli volte presso Casa Gentileschi, dove la giovane Artemisia attende e così, piano piano, la ragazza, tradita addirittura dalla governante viene lasciata in sua balia.

L’uomo perpetua nel tempo la violenza con la promessa del solito ‘matrimonio riparatore’ che non potrà mai avvenire. E’ già sposato.

Al processo indetto ci sono addirittura falsi testimoni presentati dall’imputato e non per ultima, ma altrettanto grave la testimonianza di Tuzia, colei che vive in Casa Gentileschi che fa da governante e che al posto di starle vicino la tradisce.

Finalmente il 27 novembre 1612 Agostino Tassi viene condannato per la “deflorazione” di Artemisia Gentileschi, la corruzione dei testimoni e la diffamazione di Orazio Gentileschi, il padre della Pittora.

Ha due possibilità Agostino Tassi: cinque anni di lavori forzati oppure l’esilio da Roma. Sceglie l’esilio certo delle sue amicizie che lo sosterranno senza che debba abbandonare mai la città.

Artemisia, invece, si muove. Accetta un matrimonio riparatore e va a Firenze dove viene accolta benevolmente da Cosimo De’ Medici e da sua moglie Cristina di Lorena.

Dopo Venezia, nel 1630 arriva a Napoli dove si occupa de L’Annunciazione conservata presso il Museo di Capodimonte ed altre Opere per la Cattedrale di Pozzuoli.

Per due anni è a Londra con suo padre che lavora per Re Carlo. Insieme concludono Il Trionfo della Pace e delle Arti.

Torna, poi, definitivamente a Napoli, dove resta e lavora fino alla sua scomparsa.

“Ci sono opere che nascondono segreti!” –  sono queste le parole di Artemisia che in alcune opere ripercorre volontariamente il suo dramma.

Giuditta e Oloferne

Giuditta e Oloferne  è l’opera che meglio svela il suo inconscio; una donna tradita che vuole la sua vendetta, ma soprattutto una donna che vuole e cerca l’aiuto di un’altra donna perché, semplicemente, è stata lasciata sola.

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2 Commenti

  1. Interessante la definizione di “pittora” nel 600 non esisteva nemmeno il vocabolo per definire una artista veramente unica nel suo tempo

  2. Quando gli artisti sono considerati “moderni” per pensiero ed opere, significa che erano geniali al tempo. Introspettivo lo scritto. Bello

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