5 settembre 1938: 80 anni fa la prima delle leggi razziali fasciste


Esattamente 80 anni fa, il 5 settembre 1938, il regime fascista di Benito Mussolini introdusse la prima delle cosiddette leggi razziali, ovvero una serie di regi decreti legge che, ad imitazione di quanto fatto dalla Germania nazista, vollero legittimare una visione razzista della società, in particolare a danno degli ebrei.

Il primo decreto, quello appunto del 5 settembre, riguardava la scuola (“Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista“); due giorni dopo, il 7, venne pubblicato il testo che fissava “Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri“.

La “Dichiarazione sulla razza”

Un mese dopo, il Gran Consiglio del Fascismo emise la cosiddetta  “Dichiarazione sulla razza“, un atto che venne poi formalizzato con un altro regio decreto legge e divenne quindi legge dello Stato.

“Il Manifesto della razza”

Nel luglio precedente sul quotidiano “Il Giornale d’Italia” era stato pubblicato un articolo anonimo dal titolo “Il Fascismo e i problemi della razza” che, riportato nel mese di agosto dalla rivista “La difesa della razza”, e firmato da 10 scienziati, fu considerato “Il Manifesto della razza“.

In tutto furono poi 180 i provvedimenti legislativi che privarono una parte di italiani dei diritti più elementari.

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Chi era considerato ebreo

In base alla normativa così introdotta era considerato ebreo: chi era nato da genitori entrambi ebrei, da un ebreo e da una straniera, da una madre ebrea con padre ignoto o ancora chi professasse comunque la religione ebraica.

L’anno successivo fu introdotto il c.d. “ebreo arianizzato“, una figura ibrida alla quale le leggi razziali furono applicate in modo più blando e che quindi poté beneficiare di deroghe e limitazioni.

I divieti previsti dalle leggi razziali

Una legislazione così corposa aveva lo scopo di indicare nel modo più dettagliato divieti e limitazioni, in modo da regolare quasi ogni aspetto della vita degli ebrei che in pratica, da quel momento in poi, rimasero tagliati fuori da tutto. Vi era, anzitutto, il divieto di essere iscritti al Partito nazionale fascista. Gli ebrei, inoltre, non potevano: far parte di associazioni culturali e sportive, insegnare nelle scuole statali e parastatali, studiare nelle scuole pubbliche, insegnare e studiare in accademie e istituti di cultura, insegnare privatamente, entrare nelle biblioteche o avere una radio.

http://gty.im/74351118

 

Il divieto di esercitare libere professioni

Essi non potevano esercitare la libera professione e quindi lavorare come notaio, giornalistaavvocato, architettomedico, farmacistaveterinario, ingegnereostetrica, procuratorepatrocinatore legale e altre professioni indicate dettagliatamente. Era anche loro vietato avere la licenza per il taxi e fare piloti di aereo.

Il divieto di lavorare nella Pubblica Amministrazione

Naturalmente non potevano lavorare in alcun ufficio della Pubblica Amministrazione, ma neanche in banche e assicurazioni. Era loro precluso il servizio militare. Non potevano essere imprenditori nè farsi pubblicità.

Non potevano  sposarsi con italiani “ariani”, nè, da stranieri, rimanere in Italia, né ottenere la cittadinanza italiana né mantenerla se concessa dopo il 1919.

La fuga degli intellettuali

Data la situazione, in molti furono costretti ad emigrare all’estero. Proprio il provvedimento del 5 settembre costrinse ad andar via molti professori di liceo, accademici, scrittori di libri messi all’indice e giovani laureati e ricercatori, che videro compromessa la loro carriera. In tutto, furono oltre 300 i docenti di cui il regime si sbarazzò.

I nomi eccellenti

Fra loro alcuni nomi eccellenti come i fisici Emilio SegrèBruno Pontecorvo, l’economista Franco Modigliani, lo storico Arnaldo Momigliano, il critico letterario Uberto Limentani. Senza dimenticare il celebre fisico Enrico Fermi che, riparato negli Stati Uniti (la moglie era ebrea), lavorò poi alla preparazione della bomba atomica che avrebbe posto fine al secondo conflitto mondiale.

L’abrogazione delle leggi razziali

Le leggi razziali  furono abrogate con i regi decreti-legge n.25 e 26 del 20 gennaio 1944, emanati dal governo Badoglio che, in carica dopo la caduta del fascismo, si era rifugiato a Brindisi.


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