Amazon: perché lo sciopero degli utenti è un controsenso?


Lunedì 22 marzo stavo per ordinare su Amazon, dal mio rivenditore di fiducia da qualche parte in Asia, le solite confezioni di resistenze per la mia sigaretta elettronica. Sì, per un vizio introiettatomi da una qualche multinazionale americana con benestare placito (e incasso in tassazione) dello Stato italiano ora risparmio due euro facendo viaggiare da Taiwan o giù di lì piccoli oggetti di metallo e cotone che si fanno il giro del mondo per arrivare dal mio portiere: sono complice del disastro ambientale.

Per un giorno non compro su Amazon. Magari domani, ja.

Mentre ciò accadeva, una vocina flebile mi sussurrava: “Fermo, non farlo!”. Era la vocina di Facebook. Il popolo del web, orfano delle argomentazioni sulla declinazione di genere del termine direttore e in curva discendente sul tema covid, mi invitava a boicottare quel giorno Amazon. Ebbene sì, per un giorno nessuno doveva acquistare su Amazon. Magari domani, ja.

Tralasciamo l’eventuale coerenza del messaggio del “popolo social”. Sono anni che ormai facciamo finta di non notare la contraddizione tra il dire pubblico e il fare privato e non mi sorprenderebbero proclama di persone che se la prendono con la multinazionale ma – nella eterna lotta tra sostenibilità e fatturato – somministrano contratti atipici per mascherare normale lavoro subordinato o rivestono ruoli sindacali consci che nelle loro stesse realtà i dipendenti non sono inquadrati. C’est la vie.

Tralasciamo…

“I lavoratori e le lavoratrici della filiera di Amazon hanno deciso di protestare per rivendicare un normale sistema di relazioni sindacali. Un messaggio importante rispetto alla necessità di parlare di lavoro di qualità“, spiega Tania Scacchetti di CGIL che però chiosa con In un’azienda con quel tipo di fatturato è giusto costruire un sistema di relazioni che riconosca ai lavoratori un premio di risultato e condizioni contrattate. Ossia relazioni sindacali stabili”. Sembra un po’ dire che senza quel tipo di fatturato, né, ma voi che pretendete. Ma tralasciamo anche questo.

Tralasciamo inoltre l’invito one-spot a non comprare per un giorno, utile un po’ come i flash-mob pre-pandemici per manifestare il nostro disappunto. Cinque minuti, l’attestato di presenza e saluti e baci, il nostro dovere civico l’abbiamo fatto. Dimentichiamo che Amazon è un’idra a infinite teste e che mentre non acquisto il 22 marzo ho probabilmente attivo un abbonamento per vedere contenuti TV, per dirne una. Ma tralasciamo anche la contraddizione insita di uno sciopero che dovrebbe creare disagi all’utente (il motivo fondante di questa forma di protesta), non certo invitarlo all’adesione. Tralasciamo ancora il fatto che l’unica reale ripercussione può essere il ritardo di uno o due giorni su una qualche stupida consegna, cosa che non tange noi e che probabilmente anche Amazon può gestire in maniera abbastanza disinvolta.

Tralasciamo anche le risposte da manuale delle varie dirigenze Amazon, che sono in pratica quello che gran parte dei c.d. imprenditori professionisti italiani ama scrivere delle proprie realtà su Linkedin.

L’Italia è il principale imputato perchè lavorare in Italia sarà sì brutto, ma non lavorare è anche peggio

Concentriamoci invece su un punto. Uno. Focale. Questi presunti ritmi disumani e queste condizioni lavorative disastrose che vengono denunciate dai lavoratori Amazon sono sempre nei limiti consentiti dallo Stato italiano. L’Italia è il principale imputato di un sistema lavoro che da anni produce abomini di ogni sorta. I risultati di anni di politiche del lavoro assolutamente disastrose si manifestano in tutto il loro imbarazzo quando nel 2019, pochi mesi prima della chiusura del mondo, contiamo che:

  • i contratti precari e quelli a termine (quelli che precarizzano tutta l’esistenza, in pratica), sono passati dal 10 percento degli anni ’90 al quasi 20 percento del 2017;
  • i part-time involontari in dieci annisono cresciuti del 131 percento (ma valgono lo stesso a fini statistici per calcolare gli occupati in Italia);
  • anche i sottoccupati sono quasi raddoppiati nello stesso lasso di tempo; *

che sempre nel 2019

  • il numero di espatri è triplicato (leggesi “cervelli in fuga”); ****

e che al 2020

  • a novembre il 30,3 percento dei giovani era disoccupato;
  • che ad aprile il tasso di occupazione italiano era al 57,9 percento (!); **

e che

  • una retribuzione media di 1000 euro a un’azienda costa circa 1830 euro;
  • l’Italia ha il cuneo fiscale tra i più alti del mondo; ***

e non andiamo a sfiorare nemmeno l’argomento delle riforme del lavoro dal ’90 in poi sennò finisco domani mattina. Questo senza nemmeno andarvi a raccontare di testimonianze e esperienze che vigliaccamente nascondiamo perché lavorare in Italia sarà sì brutto, ma non lavorare è anche peggio (ed è con questa pistola alla testa che la mia generazione e quelle precedenti stanno crescendo, dreaming pensione che non arriverà mai).

Quindi ora tornatemi a raccontare del perché non devo comprare le resistenze su Amazon il 22 marzo 2021.

(fonti: * Post, ** Istat, *** Confindustria, **** Migrantes)

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