Il figlio di Saul
Saul Ausländer (Geza Rohrig) è un membro ungherese del Sonderkommando, un gruppo di prigionieri ebrei isolati dal campo e costretti ad assistere i nazisti nella loro opera di sterminio. Mentre sgombera e pulisce una delle camere a gas, Saul vede uccidere dai medici nazisti un ragazzo inspiegabilmente sopravvissuto alla gassificazione. L’uomo, che sostiene che il ragazzo morto sia suo figlio, vuole evitargli la cremazione per offrirgli una degna sepoltura. A questo scopo si mette alla ricerca di un rabbino.
I rischi di un film sulla Shoah sono sempre gli stessi: di essere contestati e di risultare inutilmente ridondanti. Non è il caso di questo film. Secondo film ungherese a vincere un premio Oscar come miglior film straniero dopo “Mephisto” del 1981. Il regista racconta la cruda, tremenda e terribilmente normale routine di Auschwitz: la pianificazione delle morti, le regole, i turni. Inoltre i Sonderkommando avevano alcuni privilegi: libertà di movimento all’interno del campo, potevano tenere il cibo e gli oggetti lasciati dai prigionieri sui treni. Ma, come racconta il film, erano dei privilegi inutili. Infatti, per evitare fughe di notizie, i Sonderkommando venivano uccisi ogni quattro-cinque mesi circa.
In questa disumanità, in questo mondo così crudele, arriva però un gesto di umanità. Minima, piccola, ma non inutile. Perché non c’è niente, nessun indizio che quel bambino sia suo figlio. Quello che è forte, pulsante, quasi inevitabile, è la voglia di redenzione di Saul. Una voglia di compiere un atto di bontà in un contesto disumano. Infatti Saul si aggrappa a quel corpo in maniera maniacale, quasi viscerale. Addirittura arriva ad andare contro i progetti di fuga dei suoi compagni.
E, guardando questo film, osservano i comportamenti di Saul, vengono in mente (e non può essere un caso) le parole di Primo Levi nel saggio “I sommersi e i salvati” scritto nel 1986 “Aver concepito ed organizzato i Sonderkommando è stato il delitto più grande del Nazionalsocialismo (…) Attraverso questa istituzione, si tentava di spostare su altri, specialmente sulle vittime, il peso di colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti”
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