Termina la prima serie della fiction “I bastardi di Pizzofalcone”
Acclamata, contestata, premiata dagli ascolti: I Bastardi di Pizzofalcone possono tirare un sospiro di sollievo, avendo superato quasi indenni la messa in onda della prima serie.
Il suo successo è attribuibile a diversi fattori, primo fra tutti il fatto che il pubblico -o una parte di esso- sia eccessivamente turbato dal vedersi sbattere in faccia, con ormai nota gomorroide crudezza, la realtà con la quale ogni giorno convive e si confronta chi vive in una metropoli complessa come Napoli. Forse proprio perchè la si riconosce come vera, risulta più inquietante di un ottimo thriller girato sotto un altro cielo.
Al grigio imperante di Gomorra, infatti, Pizzofalcone offre colori caldi, una fotografia buona, in certe puntate anzi di ottimo livello, lussuose locations e scorci mozzafiato che pure i napoletani fanno fatica ad identificare con precisione, sgomenti non dalla bellezza della loro città ma dal fatto che in quel posto specifico, chissà perchè, non ci sono mai stati. In certi momenti, però, la tensione -soprattutto nell’ultima puntata- cala impercettibilmente, fino ad arrivare alla scena finale: un’ingenuità ascrivibile forse al buon cuore degli sceneggiatori, neanche a “Chi l’ha visto” ai tempi della Raffai era così facile trovare un bambino rapito.
In generale, non c’è la tensione dei primi episodi de “La squadra” a firma di Favella, dove si è fatto in modo di mostrare chiaramente che il Sant’Andrea non era un collegio di educande; non c’è l’anarchia silenziosa di Manzini quando il vice questore Schiavone tira fuori dal cassetto il pezzo di fumo, e neppure c’è la malinconia sanguigna di Montalbano. D’altro canto, nessuno di questi autori ha niente in comune con l’altro, se non il fatto di amare il genere poliziesco e di svilupparlo in contesti geo-linguistici e con peculiarità differenti.
Pizzofalcone sembra essere un regalo fatto agli spettatori, affinchè possano sperare in un lieto fine, in una notizia buona, in un’azione di Polizia conclusasi a favore della Giustizia: e a queste indicazioni ha risposto dignitosamente tutto il cast, tratteggiando i personaggi con misura e garbo, come nel caso del subplot tra Tosca e Massimiliano Gallo, mentre poco credibile risulta l’abbigliamento patinato della magistrata Laura Piras (Carolina Crescentini) che toglie i tacchi solo per andare a dormire.
Peccato non aver letto il romanzo di Maurizio De Giovanni prima della messa in onda della serie, ma Mamma Rai a volte fa di questi cadeaux, suscitando nello spettatore la curiosità di trasmutarsi in lettore. Per molti, con Camilleri, accadde con così, con buona pace dello share delle serie che seguiranno.
foto copertina: televisionando.it