28 anni fa la strage di Capaci


28 anni fa la strage di Capaci
28 anni fa la strage di Capaci

28 anni fa la strage di Capaci.

Era le 17 e 57 quando un tratto di autostrada A29 che collega Palermo con Mazara del Vallo saltò in aria per assassinare il Giudice Giovanni Falcone.

28 anni fa la strage di Capaci
28 anni fa la strage di Capaci

L’Italia fu sconvolta dalla violenza con cui la Mafia agì quel maledetto giorno.

Non fosse bastato, il 19 luglio dello stesso anno arrivò anche la strage di Via D’Amelio dove fu assassinato anche l’amico di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino.

28 anni fa la strage di Capaci
28 anni fa la strage di Capaci

Qualche giorno fa è arrivata la notizia che uno dei figli di Borsellino, Manfredi, è diventato il massimo dirigente del Commissariato di Mondello, a Palermo.

Fu Gioacchino La Barbera a piazzare l’esplosivo in un cunicolo dell’autostrada due settimane prima dell’attentato.

Quel giorno morirono non solo Giovanni Falcone, ma anche la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro Vito Schifani.

Indimenticabile l’intervento della moglie di Schifani in chiesa, durante i funerali, coadiuvata dal sacerdote

Io, Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani – Vito mio – battezzata nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, a nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato – lo Stato… – chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia, adesso. Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro (e non), ma certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio,
però, se avete il coraggio… di cambiare… loro non cambiano [pausa] di cambiare, di cambiare, loro non vogliono cambiare loro [applauso]. Loro non cambiano, loro non cambiano….di cambiare radicalmente i vostri progetti, progetti mortali che avete. Tornate a essere cristiani. Per questo preghiamo nel nome del Signore che ha detto sulla croce: “Padre perdona loro perché loro non lo sanno quello che fanno”. Pertanto vi chiediamo per la nostra città di Palermo [pianto] che avete reso questa città sangue, città di sangue, vi chiediamo per la città di Palermo, Signore, che avete reso città di sangue – troppo sangue – di operare anche voi per la pace, la giustizia, la speranza e l’amore per tutti. Non c’è amore, non ce n’è amore, non c’è amore per niente.

 

Il ricordo di quel giorno è ancora presente nella mia memoria, rimasi sconvolto tutto il giorno e per settimane, esattamente come per l’11 settembre di New York.

Due eventi terrificanti e allo stesso tempo inimmaginabili opera dell’uomo.

Siamo capaci di costruire dei palazzi bellissimi e allo stesso tempo, in un secondo, di distruggerli.

Quello che segue è il discorso pronunciato da Paolo Borsellino alla veglia per Giovanni Falcone, nella chiesa di Sant’Ernesto, a Palermo il 23 giugno 1992.

“Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso.

Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte.

Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte.

Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone, l’estremo pericolo che egli correva perché troppe vite di suoi compagni di lavoro e di suoi amici sono state stroncate sullo stesso percorso che egli si imponeva.

Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché mai si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui?

Per amore!

La sua vita è stata un atto di amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato, che tanto non gli piaceva.

Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli siamo stati accanto in questa meravigliosa avventura, amore verso Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene.

Qui Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo. E non solo nelle tecniche di indagine.

Ma anche consapevole che il lavoro dei magistrati e degli inquirenti doveva entrare nella stessa lunghezza d’onda del sentire di ognuno.

La lotta alla mafia (primo problema morale da risolvere nella nostra terra, bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, della indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità.

Ricordo la felicità di Falcone, quando in un breve periodo di entusiasmo conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta [il pentito Tommaso Buscetta, ] egli mi disse: «La gente fa il tifo per noi».

E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice.

Significava soprattutto che il nostro lavoro, il suo lavoro stava anche smuovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la vera forza di essa.

Questa stagione del «tifo per noi» sembrò durare poco perché ben presto sopravvennero il fastidio e l’insofferenza al prezzo che alla lotta alla mafia, alla lotta al male, doveva essere pagato dalla cittadinanza.

Insofferenza alle scorte, insofferenza alle sirene, insofferenza alle indagini, insofferenza a una lotta d’amore che costava però a ciascuno, non certo i terribili sacrifici di Falcone, ma la rinuncia a tanti piccoli o grossi vantaggi, a tante piccole o grandi comode abitudini, a tante minime o consistenti situazioni fondate sull’indifferenza, sull’omertà o sulla complicità.

Insofferenza che finì per invocare e ottenere, purtroppo, provvedimenti legislativi che, fondati su una ubriacatura di garantismo, ostacolarono gravemente la repressione di Cosa nostra e fornirono un alibi a chi, dolosamente o colposamente, di lotta alla mafia non ha mai voluto occuparsene.

In questa situazione Falcone andò via da Palermo.

Non fuggì.

Cercò di ricreare altrove, da più vasta prospettiva, le ottimali condizioni del suo lavoro.

Per poter continuare a «dare».

Per poter continuare ad «amare».

Venne accusato di essersi troppo avvicinato al potere politico.

Menzogna!

Qualche mese di lavoro in un ministero non può far dimenticare il suo lavoro di dieci anni.

E come lo fece!

Lavorò incessantemente per rientrare in magistratura.

Per fare il magistrato, indipendente come sempre lo era stato, mentre si parlava male di lui, con vergogna di quelli che hanno malignato sulla sua buona condotta. Muore e tutti si accorgono quali dimensioni ha questa perdita.

Anche coloro che per averlo denigrato, ostacolato, talora odiato e perseguitato, hanno perso il diritto di parlare!

Nessuno tuttavia ha perso il diritto, anzi il dovere sacrosanto, di continuare questa lotta.

Se egli è morto nella carne ma è vivo nello spirito, come la fede ci insegna, le nostre coscienze se non si sono svegliate debbono svegliarsi.

La speranza è stata vivificata dal suo sacrificio.

Dal sacrificio della sua donna.

Dal sacrificio della sua scorta.

Molti cittadini, ed è la prima volta, collaborano con la giustizia.

Il potere politico trova il coraggio di ammettere i suoi sbagli e cerca di correggerli, almeno in parte, restituendo ai magistrati gli strumenti loro tolti con stupide scuse accademiche.

Occorre evitare che si ritorni di nuovo indietro.

Occorre dare un senso alla morte di Giovanni, della dolcissima Francesca, dei valorosi uomini della sua scorta.

Sono morti tutti per noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera.

Facendo il nostro dovere, rispettando le leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici; rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro); collaborando con la giustizia; testimoniando i valori in cui crediamo, in cui dobbiamo credere, anche dentro le aule di giustizia.

Troncando immediatamente ogni legame di interesse, anche quelli che ci sembrano innocui, con qualsiasi persona portatrice di interessi mafiosi, grossi o piccoli; accettando in pieno questa gravosa e bellissima eredità di spirito; dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo”.

28 anni fa la strage di Capaci
28 anni fa la strage di Capaci

 

 

 

 

 

 

 

 

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