La Stagione Sinfonica 2019 del Teatro Carlo Felice si è svolta ancora una volta, Venerdì 22 febbraio alle ore 20.30, con uno straordinario Stefano Bollani protagonista al pianoforte del suo Concerto Azzurro. Eseguito per la prima volta nel maggio 2017 all’Opera di Firenze, ma commissionato da Kristjan Jarvi per l’Orchestra Sinfonica della Radio MDR di Lipsia, il Concerto Azzurro, è un “Concerto per pianoforte e orchestra” in un prologo e tre movimenti, con ampi spazi lasciati all’improvvisazione, composto da Stefano Bollani e arrangiato, per la parte orchestrale, da Paolo Silvestri, già arrangiatore e co-autore del Concertone che il pianista milanese aveva inciso sedici anni fa con l’Orchestra della Toscana.
All’ingresso di Bollani il pubblico si fa sentire. È il momento del suo Concerto azzurro, nato proprio in sinergia con Järvi e basato sulla sempre nuova improvvisazione pianistica: il titolo è un omaggio alla cultura orientale (l’azzurro come colore del chakra della gola, dell’espressione creativa). Di fatto il Concerto azzurro è nato, appunto, dalla collaborazione non solo con Järvi, ma anche con Paolo Silvestri, che ne ha permesso l’orchestrazione: stringendo, a Bollani sono da ascrivere le linee melodiche e l’improvvisazione, che ha grande parte nell’opera e che al pianista riesce magnificamente. Anzi, si può dire che il miglior talento di Bollani sia proprio l’improvvisazione. A un inizio convenzionale, dove a una ‘minimalista’ ripetizione di cellule ritmiche concorre l’orchestra e il pianoforte, ci si trova poi in un mondo di ritmi latini, cui il pianoforte e i legni danno gagliarda vita: Bollani inizia a farsi apprezzare come commentatore melodico del suo discorso concertistico, variando, giocando e divertendosi con i ritmi e le note. Sono presentissimi Bernstein e Gershwin, non solo nel loro gusto elegiacamente melodico (da musical, per intenderci) ma anche proprio nell’uso dei ritmi latini. Il lato estetico prevale ancora su quello logico: ci troviamo, di fatto, davanti a una rapsodia pianistica con vaghe pennellate orchestrali. Bernsteiniana m’è suonata, proprio, l’oasi di dolcezza vagamente jazzistica, sorretta dagli archi, che trascolora in zone di più energica varietà ritmica. Bollani mescola tutto, sempre improvvisando, infarcendo di citazioni il discorso: ironia e leggerezza sono i sentimenti prevalenti. Su un trillo tenuto parte un grande applauso: e Bollani si diverte col pubblico, portando poi a conclusione il concerto con accenti ancora gershwinniani. L’applauso caldissimo è tutto per il beniamino. Seppur strutturalmente acerbo – si vede, insomma, che è un’opera sperimentale – e benché nelle sue improvvisazioni Bollani si sia forse dilungato troppo (perlomeno in taluni passaggi), il concerto ha molto di gradevole: e, soprattutto, non può che essere suonato da lui.
Bollani ha già inciso la Rapsody in Blu (con Chailly) e, benché non si trovi a suo agio con partiture già scritte e una grande orchestra, come lui stesso ha dichiarato, certo Gershwin gli è congeniale per il repertorio che pratica abitualmente, quello jazz. Bollani ha nell’anima, fra gli autori classici, il sound gershwinniano: anche nel Concerto azzurro mi pare di averlo percepito distintamente. Nella Rapsody tutto fila assai bene: il portamento swingato in acuto del clarinetto apre la breve introduzione orchestrale, soffusa, poi timidamente entra il pianoforte: Bollani e Järvi sono molto affiatati. Il pianista riesce a non appiattire tutto al jazz, ma a interpretare bene anche i ritmi del ragtime. Assai bene i momenti soffusi, da melodie di musical che tanto bene riuscivano a Gershwin e il cui suo naturale erede fu Leonard Bernstein, la cui esecuzione della Rapsody in Blue mi sembra ancora, ascoltandola, la migliore di tutte, anzi l’inimitabile. Grandi applausi salutano l’uscita di Bollani, che regala due bis: una divertente improvvisazione basata su una rapsodia di motivi vari, da canzoni alla musica classica (cosa che gli riesce magnificamente), e una versione per pianoforte di Mattinata di Leoncavallo, che definisce (ma mi sfugge ancora il motivo) il ‘Gershwin italiano’.
Il senso della sfrontatezza yankee di fronte al ‘vecchio mondo’ parigino, con le sue ambientazioni da romanzo realista, viene risolto da Järvi nell’esaltare il maggior numero di colori possibili, data anche la precarietà dell’acustica all’aperto per un concerto di musica classica. Gli applausi attestano il gradimento del pubblico, di una bella serata di musica.
Patrizia Gallina
(Foto di Marcello Orselli)
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