Nel libro di Pietro Greco la tematica della Scienza nel continente europeo
“La scienza e l’Europa – dal 600 all’800” edito dalle Edizioni l’Asino d’Oro, Pietro Greco mette in rilevo che la rivoluzione scientifica non consiste solo nel passaggio istantaneo dalla dimensione culturale omogenea della ‘non scienza’ alla dimensione culturale omogenea della ‘scienza’, bensì in un processo gnoseologico, epistemologico e sociologico fortemente caratterizzato ma non privo di contraddizioni, consumato in tempi piuttosto rapidi ma non istantanei e la rivoluzione ha necessariamente le sue radici nel passato.
Essa ha per definizione il bisogno del passato per affermarsi come processo di cambiamento, e non solo perché è una condizione relativa che si consuma nel tempo ma anche e soprattutto perché la rivoluzione è la crisi, una crisi acuta, di un sistema precedente. Senza un sistema precedente che vede crollare i suoi equilibri non ci sarebbe rivoluzione. E i rivoluzionari sono parte di questa crisi. I due scienziati che nell’immaginario collettivo rappresentano molto bene la rivoluzione scientifica, sono senza dubbio Galileo e Newton.
Lo scienziato toscano, è a pieno titolo un uomo del Rinascimento. E Newton passa molto più tempo a dilettarsi della medievale alchimia che a costruire la moderna fisica. Dunque non solo la rivoluzione scientifica non è un fulmine al ciel sereno, ma non avrebbe alcun senso. Il Seicento non è solo il secolo della fisica, ma è anche quello in cui nasce la matematica moderna. La scienza dei numeri va incontro a un rinnovamento non meno profondo e fertile di quello delle scienze della natura. Una rivoluzione, appunto, che si consuma grazie soprattutto a tre conquiste fuori dall’ordinario: la nascita della geometria analitica (Fermat e Cartesio, anno indicativo 1637); l’acquisizione del concetto di funzione (Galileo, anno indicativo 1638); la nascita e lo sviluppo del calcolo differenziale e integrale (Newton e Leibniz, anni indicativi tra il 1666 e il 1687).
Il Settecento è anche e forse soprattutto il secolo in cui maturano le premesse della rivoluzione scientifica (e non solo) del Seicento e così la piccola appendice occidentale dell’Eurasia assume l’egemonia sul mondo. Il XVIII secolo è l’intreccio di tutti questi processi, niente affatto indipendenti. Basti pensare all’inizio dell’industrializzazione nel tardo Settecento, il cui processo coinvolge contenuti scientifici e tecnologici, modifica l’organizzazione del lavoro, altera i tradizionali profili sociali, e lo fa in modo così dirompente da porsi come fattore di discontinuità. La gran parte dei matematici del XIX secolo lavora su problemi aperti del mondo naturale, in particolare sui problemi della fisica. Che a loro volta soddisfano nuove domande che vengono dall’economia e dalla società.
È per risolvere i problemi posti dalla fisica che nel corso dell’Ottocento viene creata una matematica molto complessa. Ma la matematica del XIX secolo ha anche una forza di propulsione intrinseca che la sospinge molto oltre i bisogni delle scienze naturali, in una dimensione tutta sua, che poco ha a che fare con la realtà naturale. Passa così l’idea che la matematica non sia uno strumento una serva delle altre scienze, ma abbia un valore in sé che sia regina e che, di conseguenza, possa e debba essere studiata per il piacere di farlo, seguendo le sue sole logiche interne. In poche parole, nell’Ottocento la matematica si distacca dalla natura e dalle scienze naturali per seguire la propria strada. Si consuma così una sorta di scisma tra la ‘matematica pura’, che risponde solo alla curiosità dei matematici, e la ‘matematica applicata’ che sempre più pervade le altre scienze e le attività umane.