Tieniti forte. Lettere al figlio che parte (Bordeaux Edizioni) è l’ultimo libro dell’antropologo Felice Di Lernia. Quaranta brani in cui, attraverso ricordi e stralci di vita quotidiana dell’autore, ciascun lettore potrà trovare una parte di sè talora offuscata dai ritmi frenetici della vita di ogni giorno che quasi mai consentono di fare delle pause di riflessione.
Per la rubrica UN AUTORE AL MESE abbiamo avuto il piacere di discutere di dinamiche familiari, di crescita personale, di rapporto di coppia con il Dott. Di Lernia che ringraziamo per la sua disponibilità.
Per UN AUTORE AL MESE, intervista all’antropologo Felice Di Lernia
– Partiamo subito dal titolo del libro. “Tieniti forte” è una raccomandazione che di solito viene rivolta dai genitori ai figli. Vale anche al contrario? Sono i genitori che, in taluni casi, devono imparare a tenersi forte?
Nel brano dal quale è tratto il titolo del libro mi rivolgo proprio a mio padre, ricordandolo nei momenti in cui fu colpito da un ictus. È dentro questo ricordo che intravedo la connessione profonda fra lui, che in quel frangente ricorda il suo essere stato bambino, e me che, specularmente mi rivolgo al bambino che sono stato e che, in qualche modo, ancora sono.
– Essere figli; Essere figli e genitori; Essere genitori. La vita generalmente scorre in questo modo. Oggi però si è figli per molto più tempo e sempre più spesso accade che non si diventi genitori. Sintomo di desiderio di libertà, di fatica a formare una propria famiglia o cosa?
È un tema complesso che non può avere una risposta univoca. Certamente influisce quella che Zigmunt Bauman ha definito “liquefazione” della società e il conseguente venir meno (anche) di una serie di modelli di comportamento, istituzioni culturali, dispositivi, confini, stereotipi, eccetera. Le ragioni per cui il matrimonio e la genitorialità non sono più ai primi posti nella gerarchia degli obiettivi e dei valori sono anche altre, ovviamente, e le conseguenze non sono necessariamente soltanto negative, anzi.
– Un tempo tra padre e figli, il più delle volte si instaurava un rapporto povero di sentimenti. Il padre era una figura autoritaria; la madre era quella che si occupava dalla crescita dei figli. Oggi i papà si occupano della crescita dei propri figli insieme alla madre ed il rapporto tra padre e figlio è molto più vivace in termini di sentimenti. Avere un padre partecipe aiuta ad essere un adulto migliore e/o comunque più completo?
In linea di massima direi che, assolutamente sì, aiuta. Si tratta, però, di capire di quale modello di paternità e di quale qualità della partecipazione stiamo parlando. In sé, nulla è positivo a priori. Molti modelli e molte relazioni sono disfunzionali nonostante le premesse potrebbero indurre a credere il contrario. Si pensi, per fare un esempio estremo ma chiarificatore, all’esito della partecipazione sincera, affettuosa, assidua e attenta di un padre delinquente, immerso in una cultura criminale: il problema, in questo caso, contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, è in genere dato dal fatto che persone di questo tipo, al di là del loro comportamento personale che non necessariamente si traduce in una eredità, sono portatrici di quelle che potremmo definire “identità sature”, nel senso di prive degli spazi necessari per il confronto e la crescita. È questa carenza, questa incapacità a rendere negativo il proprio essere partecipi.
Crescere senza mai completarsi
– Nel suo libro il riflettore non viene puntato solo esclusivamente sul rapporto padre-figlio. Nel capitolo “La ragazza del pullman” è la “crescita della coppia” ad essere il focus. Una vita insieme che con il passare degli anni accresce la paura dell’assenza. “Crescere senza mai completarsi”, è questo il segreto per mantenere sana la vita coniugale?
Questa è la mia/nostra esperienza, la mia/nostra filosofia. Non so se può essere considerata una regola esportabile. Io credo fermamente che siano pericolose, molto pericolose, le relazioni che si rappresentano a sé stesse come magie di completamento e che si comportano di conseguenza. Trovo che questi modelli di relazione rivelino forme disfunzionali di immaturità (la maturità non esiste, ma alcune forme di immaturità sono più faticose di altre) cui si fa fronte idealizzando le conseguenze che producono. Un conto è avere bisogno dell’altra persona, un conto è voler stare con lei. Va detto, però, per onestà intellettuale, che il tema dell’incompletezza è un tema enorme, sul quale io costruisco tutto il mio pensiero, e dunque difficilmente sintetizzabile.
Il coraggio di crescere
– Ho trovato terribilmente veritiera la riflessione sul suicidio. “Si tolse la vita un mio amico fraterno; avevamo fatto talmente tante cose insieme che mi stupisce che io tuttora, di lui, continui a ricordare innanzitutto che si tolto la vita e solo dopo, e non sempre, le altre cose”. Perché accade questo? Perché ci resta il ricordo del gesto peggiore e non il meglio di una persona?
Perché, è brutto dirlo, il suicidio (tranne che in alcune specifiche situazioni, come il suicidio assistito che può essere vissuto anche collettivamente), è in genere vissuto da chi resta come un tradimento. Chi decide di togliersi la vita ci dice che la presenza di noi che restiamo (si pensi alle persone care che restano) è meno importante dell’urgenza di farla finita, relega le persone care nella invisibilità. E questo è un vissuto scabroso, che suscita un sentimento negativo nei confronti di chi si suicida, ma del quale non sta bene parlare.
– Al giorno d’oggi, purtroppo, l’idea del suicidio sembra avanzare senza troppe difficoltà nelle menti dei giovanissimi. Perché? E cosa si può fare in famiglia per contrastare tale fenomeno?
Non ho contezza di evidenze statistiche di questo tipo. La velocità di circolazione e la quantità delle notizie suscita spesso errori di percezione (il classico mala tempora currunt). Da sempre il suicidio è un fenomeno che non ha a che fare solo con la singola persona che compie l’atto ma anche con le sue reti di riferimento primarie e secondarie. In questo senso la famiglia può certamente essere un fattore che previene o che predice scelte estreme.
– Possiamo dire che per crescere, per amare, per vivere, occorre avere coraggio?
Certamente. Per crescere, amare, vivere bisogna aprire tante porte. La nostra esistenza è fatta di porte che si decide di aprire o di non aprire: in ogni caso, quale che sia la scelta, ci vuole coraggio.
– Nuove famiglie (allargate, monogenitoriali, due papà, due mamme, etc). Se un uomo d’inizio Novecento piombasse oggi nella nostra società, quanto ne resterebbe sorpreso? Era prevedibile questa evoluzione?
Non era prevedibile, ma era augurabile: ecco uno degli aspetti positivi di quel processo di cambiamento di cui parlavamo prima.
Tieniti forte, un libro “per chi si mette in cammino”
– Tornando al suo libro (che io proporrei nelle scuole superiori per discutere di diverse tematiche con i ragazzi) quali sono stati i primi feedback? Come è stato accolto?
È presto per fare bilanci: i libri possono avere vita lunga e dunque bisogna sperare di poterne riparlare più in là. Ciò detto, sono molto contento del fatto che i lettori e le lettrici spesso si identifichino nei miei vissuti.
– Chi, a suo avviso, dovrebbe leggere “Tieniti forte”?
Chi è disposto a farsi domande pur senza avere garanzia di risposte, ad aprire finestre che non sa se potrà chiudere. Chi si mette in cammino.
– E per concludere, quando “è possibile chiudere la porta”?
Come dicevo prima, la nostra esistenza è fatta di porte che devono aprirsi o non aprirsi, chiudersi o non chiudersi. Scoprire se aprire e se chiudere, e quando farlo, è ciò che chiamerei consapevolezza. Un percorso, dunque, non un metodo.
Felice Di Lernia è autore anche di Mio fratello è figlio unico (ma ha molti follower) (2015) e Eppure il vento soffia ancora (2018). Potete seguirlo sul suo blog Curacultura.
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