Gli ebrei che appartengono alle categorie apolidi, stranieri, non nati in Italia, sovversivi, e antifascisti nel periodo della seconda guerra mondiale furono passibili d’internamento in uno dei circa 400 luoghi di concentramento o di confino istituiti sull’intero territorio del regno dei Savoia e guidato politicamente da Benito Mussolini, il duce.
Questi campi furono solo in minima parte adibiti anche alla detenzione di tutti gli ebrei arrestati dopo l’8 settembre 1943, perché con la nascita della Repubblica Sociale di Salò e l’occupazione tedesca della parte della penisola non liberata dalle forze alleate, furono invece creati veri e propri Lager, come quelli della Risiera di San Sabba, a Trieste; quello di Borgo San Dalmazzo a Cuneo; quello del campo prigionieri di Fossoli, presso Carpi in Emilia e nel 1944 anche quello di Bolzano-Gries.
In questi campi transitarono ebrei e altri prigionieri, in attesa di essere deportati. Per gli ebrei la destinazione dall’Italia è soprattutto il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, in Polonia.
I luoghi che, però meglio si addicono alla reclusione degli ebrei subito dopo l’arresto, sono le carceri cittadine, o in mancanza di posto, le caserme e altri edifici dove è possibile isolare, detenere, torturare e interrogare nel modo che peggio si fosse ritenuto i prigionieri.
E così a Varese, Como, Genova, Torino, Firenze, Ferrara e anche nella stessa Roma, addirittura non lontano dal Vaticano, le prigioni, che ospitavano detenuti arrestati per reati comuni diventavano l’ultima dimora italiana di migliaia di innocenti di ogni età, colpevoli solo di essere nati ebrei.
A Milano, il 10 settembre 1943 i tedeschi requisirono due raggi, il IV e il V del carcere di San Vittore e i prigionieri ebrei catturati in Lombardia furono registrati senza nome e senza matricola, solo con un semplice numero progressivo, seguito da una E (ebreo): 1E, 2E, 3E, … fino a che il numero di prigionieri fosse sufficiente per organizzare un trasporto, in modo tale che il raggio si svuotasse e la numerazione potesse ripartire con altri.
Le condizioni igieniche furono a dir poco proibitive, la mancanza di cibo assolutamente sistematica, la promiscuità totale, la violenza, la tortura e l’abuso continuo rappresentarono l’ordinaria amministrazione. Alcuni sopravvissuti ricordano che gli unici segni di umanità in quel periodo arrivavano da altri detenuti e da qualche guardia carceraria italiana, poiché era vietato persino ai medici di prestare soccorso a un ebreo malato e la pena per chi trasgrediva gli ordini era l’arresto e la deportazione immediata.
Per questo motivo, a titolo esemplificativo, l’agente di custodia, Andrea Schivo deve essere considerato un eroe, perché fu condannato per aver “agevolato detenuti ebrei, soccorrendoli con delle uova, frutta e marmellata”. Schivo morì, come tanti ebrei, in un lager in Germania di stenti e maltrattamenti.
In Italia, secondo un recente sondaggio condotto dall’istituto diretto da Alessandra Ghisleri sono ancora tanti quelli che pensano che il genocidio degli ebrei sia solo un’invenzione e addirittura alcuni non sopportano la religione ebraica, perché la ritengono la detentrice di gran parte del potere economico nel mondo.
Eppure nella storia contemporanea con il termine Shoah si intende proprio il genocidio della popolazione e della cultura ebraica, perpetrato negli anni che vanno dal 1935 al 1945 in Germania e nei Paesi occupati dalle potenze dell’Asse Roma-Berlino durante la Seconda guerra mondiale, secondo l’ideologia razzista antisemita predicata da Adolf Hitler, e messa in atto dal Partito Nazista Tedesco. Ma l’antisemitismo fu adottato anche dal fascismo italiano, dopo l’altra odiosa pratica e la terribile conseguenza di migliaia di vittime, del razzismo antiafricano, con le leggi razziali del novembre 1938, per la difesa della razza italiana, volute dal Partito Nazionale Fascista e sottoscritte da re Vittorio Emanuele III di Casa Savoia.