Capone, trama e recensione


Nell’ultimo periodo della sua vita Al Capone (Tom Hardy) soffre di demenza scaturita dalla sifilide e vive con sua moglie Mae (Linda Cardellini) nella sua tenuta di Miami. Dopo aver trascorso in carcere poco più di sei anni per evasione fiscale va incontro ad un declino fisico e mentale che gli causa allucinazioni e incontinenza.

Capone, recensione

Il film, scritto, diretto e montato da Josh Trank, è tutto imperniato sull’effetto che sortisce il declino fisico e mentale di un uomo che pure era stato potentissimo e temibilissimo. Già sulla locandina Al Capone si sfalda alla stessa stregua della sua figura di boss ritenuto ormai inoffensivo e che tra le labbra è costretto a stringere carote al posto dei suoi amati sigari. Gioca con i bambini, dai quali viene sopraffatto, riceve continuamente chiamate da Cleveland che pensa arrivino da un figlio inesistente. Il dottore (Kyle MacLachlan) consiglia a sua moglie di mantenere attorno a lui cose familiari ma le preziose statue romane man mano vengono portate via. Nella sua mente si fa spazio l’ossessione: alla radio è convinto di ascoltare la cronaca del massacro di San Valentino e pensa di essere osservato continuamente. Messo al tappeto anche dalla moglie che non vuole più sentire pronunciare il nome Al, è intercettato dall’FBI che manda inutilmente un agente a interrogarlo. Tutti, perfino la polizia, sembrano interessati unicamente ai fantomatici 10 milioni di dollari che Capone terrebbe nascosti (e che ad oggi non sono stati mai ritrovati).

Tom Hardy fornisce una prova davvero importante. Pesantemente sfigurato dal trucco, si prodiga in una sparatoria finale con pannolone in vista e una carota stretta tra i denti. In questo frangente il suo Capone si dice disgustato dai suoi sodali e dai soldi. Le reminiscenze delle sue imprese sanguinose lo disturbano notevolmente. La sceneggiatura non mette particolarmente in rilievo la vera personalità del boss ma Hardy fa quel che può e lo fa benissimo.

Capone, un viaggio nelle mente e nei ricordi del gangster

“Capone”, la cui lavorazione è stata alquanto travagliata, presentava inizialmente un titolo provvisorio decisamente più emblematico: “Fonzo”. Non si tratta di un biopic classico, bensì di un’opera che scardina i canoni del genere e che resta sospesa tra sogni/allucinazioni e realtà, con qualche sfumatura horror e splatter. Il film non presenta una grande quantità di eventi e soprattutto lascia pochissimo spazio al realismo. Eppure ci immette in una psicologia interessante per l’effetto declino di cui sopra, con sprazzi di umanità ritrovata attraverso la demenza che in qualche modo paradossalmente fa rinsavire. Trank sceglie di non coltivare i semi sparsi qua e là: il denaro nascosto, i figli reali o frutto di allucinazioni, la bancarotta che porta alla perdita delle statue. Semplicemente ci fa compiere un viaggio nella mente ormai malata e nei ricordi del gangster già tante volte rappresentato al cinema, in una maniera finalmente diversa.

In attesa dell’uscita in Italia, “Capone” ha già incassato 2.5 milioni di dollari attraverso lo streaming on demand negli Stati Uniti d’America nel giro di soli dieci giorni. Ciò fa ben sperare chi attende nel nostro paese di gustarsi questo film suggestivo e ben realizzato, che al momento ha soddisfatto il pubblico ma molto meno la critica.

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