Sono andate in scena il 7 e 8 maggio le repliche di Sin Aire, prima produzione del Nostos Teatro. Protagonisti Sara Scarpati, Maria Teresa Vargas e Giovanni Granatina, regia di Silvana Pirone.
La prima produzione del Nostos Teatro di Aversa, ha avuto senz’altro favore di pubblico, tale da essere proposto dopo la messa in scena di marzo. L’idea di Sin Aire filtra lentamente nel percorso artistico e personale di Silvana Pirone, frutto dell’innesto derivante da un premio ricevuto al Festival Internazionale di regia “Fantasio Piccoli” basato su uno studio di “Aspettando Godot” fuso al testo de “I ciechi” di Metterlich, di un viaggio in Giappone e dalla sua curiosità per Aokigahara la foresta dei sucidi ai piedi del Monte Fuji, ed ecco che Sin Aire chiede di vivere sul palco.
In collaborazione con il drammaturgo Luigi Imperato prende forma Sin Aire, uno spettacolo affascinante, combinazione di diversi linguaggi ambientato nella spettrale foresta dei sucidi in Giappone, tra bui e ombre, regna sovrana asfissia, assenza di vita, di luce, colore, sorrisi; reso palpabile dalla scenografia di Monica Costagliola e Angelo de Tommaso dove al centro del palco troneggia una grande clessidra, con l’inesorabile scorrere della sabbia che rappresenta il tempo e cappotti appesi a simboleggiare le anime smarrite.
Il linguaggio del corpo ha un valore suggestivo in questa pièce teatrale, le figure delle due protagoniste Sara Scarpati e Maria Teresa Vergas sembrano danzare, movenze fatte di gesti nevrotici che si ripetono, si accentuano, tale da coinvolgere lo spettatore in questo senso di smarrimento, soffocamento e fobia scandite dai giochi di luce di Paco Summonte e dalle musiche di Davide Giacobbe.
Sono vestali cieche che si cercano toccandosi i lineamenti, trascinando i piedi sulle foglie, o nella sabbia che scorre dall’enorme clessidra, poiché solo cosi, l’uno e l’altro elemento al contatto del loro corpo sembrano ridargli un’idea confusa di esistenza e non assenza. Abiti chiari e scuri che indossano e smettono come frammenti di vita in un moto perpetuo che alterna luce e oblio.
Presenze in questa totale assenza di tutto, in un limbo o purgatorio, un non luogo dove l’una rappresenta l’anima e l’altra il corpo della stessa donna uccisa dall’uomo che amava, interpretato da Giovanni Granatina. Egli è un uomo preda dei suoi tormenti, dell’eterno dualismo bene – male, fede – ragione che alcova in ognuno di noi, ma in taluni diventa delirio tale da sfidare il Dio in cui credeva la donna che lo amava, arrivando a sopprimerla all’albero della foresta perché venisse a salvarla, dimostrando cosi la sua esistenza.
“Perché hai fatto in modo che si fidasse di me? Era solo una preda, io ti ho sfidato”
Una donna cosi diversa da lui, pura, leggera ma strutturata per un mondo che lui non accetta, lei è ceca, figlia di una cecità che non ti permette di capire, convinta che nella profondità di uno sguardo potesse cogliere tutti i segreti di un essere umano e del suo uomo, ma per lui non è cosi.
“Non mi hai mai visto, è inutile raccontarsi storie, bisogna vedere per amare.”
La follia dell’uomo culmina in un duplice gesto estremo, l’uccisione della sua amata e la sua. L’intensità d’interpretazione dei protagonisti è palpabile, visibile ed encomiabile, un plauso particolare a Giovanni Granatina. Lo spettatore resta avvolto da questa dimensione, tale da rimanere a fine spettacolo e con gli attori ormai fuori scena lì, fermo a metabolizzare quanto l’ha attraversato, perché l’uno e l’altro, ratio e follia albergano in ognuno di noi e solo la nostra il-logicità farà sì che l’una abbia il sopravvento sull’altro.
“Io non vedo il mio cuore, sono io il cieco.. Non sapeva che il suo amore potesse uccidermi.”