La mia Africa

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Viaggio di un kiter in Africa, in cerca di vento

Casa, ufficio, palestra e poi di nuovo a  casa: tiritera quotidiana, la mia storia sentimentale era diventata un rogo, il lavoro si era tramutato in un collante dove nascondere i tempi morti, la giornata si trasformava in una sequenza di sigarette. Era il febbraio 2015, un rosario di giorni tutti uguali. Era arrivato il momento di prendersi delle ferie, di staccare da tutto e da tutti, era tempo per me; avevo bisogno di aria, di mare e soprattutto di vento!

Ci metto davvero un attimo a decidere di andare in Kenia, l’Africa Nera, l’Africa del quarto mondo, quel lenzuolo immenso di terra diviso tra la savana e le bianche spiagge dell’Oceano Indiano, sovrastato dal Kilymangiaro, massaggiato dai venti termici provenienti da nord.
Partenza da Roma con la compagnia di bandiera Turca, scalo a Instanbul, tempo di bersi una birra e ammirare la neve che scende a grappoli sugli aerei parcheggiati (- 12 gradi, un freddo che ti gela le ginocchia, e quasi non ci si crede che a sole 5 ore di volo da lì, in quel preciso momento la colonnina di mercurio segnava 40 gradi).

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Quando arrivo in Africa, appunto,  trovo 35 gradi (già dalle 8 di mattina), passeggio lungo il marciapiede dell’aeroporto di Mombasa;  quei profumi, quei colori, l’immagine di me, SOLO , libero, con una montagna di valige per trasportare tutta l’attrezzatura sportiva (vele, tavole, surf) e dinnanzi a me, “mama tierra Afrika”! Compro subito una scheda sim per il telefono, attivo un abbonamento ed ecco che gira la rete anche sul mio telefonino, controllo le previsioni del vento e il responso dice Watamu!

 

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Da Mombasa a Watamu sono 80 km di strada, posso prendere un taxi ma voglio vivermi l’Africa e prendo il mezzo di trasporto ufficiale, quello che utilizzano tutti, si chiama “Matatu”, ovvero uno pseudo furgoncino che può portare fino a 15 passeggeri, non ha orari nè fermate prestabilite, non ha un prezzo fisso del biglietto, anzi non c’è il biglietto; c’è un autista che ti chiede pochi scellini in proporzione alla strada che hai da percorrere. Ha solo una direzione (nord o sud), si ferma quando chiedi di scendere e soprattutto si ferma del tutto quando vi sono pochi passeggeri e finché non si riempie nuovamente non si riparte. Per farla breve, per percorrere  80 km ci si può impiegare due ore o anche 5 ore, ma non c’è problema, sei in Africa, sei nel luogo dove gli orologi non esistono!

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Ecco che si inizia a scorgere il Mare, ha un colore incredibile questo Oceano Indiano ed io sono super eccitato; vedo le palme che si muovono come in uno strano balletto, sospinte dal vento, e ti accorgi che è davvero un gran giorno! In spiaggia incontro altri surfisti, altri kiter, li bombardo di domande in cerca di informazioni utili e tra i tanti faccio amicizia con un ragazzo biondissimo,  russo, Miai, che gestisce una scuola di kite. Io lascio la mia attrezzatura nella sua casa vela e mi dice che posso restare lì qualche giorno, posso utilizzare le vele come materasso e la pompa dell’acqua esterna per lavarmi. In poche ore ho casa, vento e deposito attrezzatura, non ho bisogno di nulla, di nulla più! Il mio viaggio assume già una forma speciale da contorni brillanti, mi sento libero, sono sotto la linea dell’Equatore con 40 gradi ed un vento costante che soffia ininterrottamente, forse io e Miai siamo le persone più libere di questo pianeta!

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Passo qualche giornata a Watamu, tra una surfata e l’altra conosco un mille persone, e rimango colpito da tutto mentre dall’esterno tento di tener nascosto questo mio sentimento. Dei Kenioti subito mi innamoro, anche se tutti parlano un fluente Inglese la loro lingua madre è lo Swahily, ed il loro “ciao” è “jambo jambo” e lo si usa con tutti. Jambo jambo ormai è il motto del viaggio e lo stesso Swahily diventa sempre piu’ comprensibile!

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Il resto del viaggio va da sé, nello stesso modo in cui è iniziato: conosco gente, vengo ospitato nelle loro case, mi pago l’affitto facendo la spesa. Quasi tutte le sere (e lì la sera inizia alle 18.00, quando il sole va via) le passo a guardare le stelle, non c’ è vita mondana e nemmeno la cerco, sono comunque stanco perché logorato da una giornata di sport in mare, ma guardare quel cielo di stelle (e vi assicuro che non è lo stesso cielo stellato che si può vedere qui) non mi stanca, non mi annoia, mi perdo un po’ tra le costellazioni.

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Inizio a conoscere un pò di più i problemi del posto, perchè i problemi ci sono, anche se sono solo un surfista e per me il problema è Vento SI / vento NO; ma  è palese che la povertà, la malnutrizione, le condizioni igienico – sanitarie e soprattutto l’ Aids spezzano le gambe di quella gente, che sopravvive con la pesca e con la pastorizia e ben poco col turismo nonostante sia un paradiso in terra!

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Continuo il mio viaggio seguendo i consigli di Miai: non faccio più uso delle scarpe, voglio restare a contatto col terreno, cammino scalzo ovunque, per strada, nei supermercati, nei Matatu, faccio amicizia con tutti e cerco di parlare con qualsiasi anima viva.

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Visito… Malindi, Diani, Mambrui, ogni posto è diverso dall’altro e ogni persona porta con sé la sua storia, storie semplici, storie vere!

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Adesso ho una storia da raccontare anche io.

 

Fonte Foto GiGi

 

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