Le urne si sono chiuse e il verdetto, più che nei voti, è nell’assenza: nessuno dei cinque quesiti referendari su lavoro e cittadinanza ha raggiunto il quorum necessario del 50% + 1 degli aventi diritto. Un dato ancor più significativo se si considera che l’affluenza si è fermata al 30%. È un fallimento, sì, ma non solo dei promotori. È un segnale allarmante.
Un’apatia che parla
L’astensionismo è ormai diventato un attore protagonista della politica italiana. Non si tratta di un episodio isolato: da anni, i referendum faticano a mobilitare l’elettorato. Ma quando si parla di temi cruciali come il diritto al lavoro, la rappresentanza sindacale, la cittadinanza e le tutele nei contratti, la diserzione dalle urne assume un significato ancora più grave. Alla fine delle votazioni è stato registrata un’affluenza del 30% di voti, non abbastanza per raggiungere il quorum.
Cosa porta milioni di cittadini a disinteressarsi di scelte che incidono direttamente sulla loro vita quotidiana? La risposta non è univoca, ma certamente comprende disillusione, sfiducia nelle istituzioni, scarsa conoscenza dei contenuti e, forse, una sensazione diffusa di impotenza: il voto non cambia le cose, quindi a che serve?
La responsabilità è della politica?
Il fallimento dei referendum è anche responsabilità di una classe politica che, in molti casi non ha approfondito l’argomento del referendum, evitando di prenderne davvero posizione o boicottandoli indirettamente con un silenzio assordante. Se il referendum è lo strumento di democrazia diretta per eccellenza, il suo svilimento segnala una crisi del rapporto tra cittadini e potere decisionale.
Quando il Parlamento delega tutto al voto popolare, e poi abbandona il campo senza informare adeguatamente o motivare gli elettori, contribuisce ad alimentare la spirale del disinteresse. Per cosa si va a votare, perché è importante questo referendum? Cosa succede se voto sì? Cosa succede se voto no, all’atto pratico? Troppo spesso si sottovaluta l’importanza della chiarezza, della comunicazione, della capacità di parlare davvero alle persone, spiegare ciò che sono chiamati a fare, istruirli a sufficienza per poter compiere una scelta in maniera indipendente.
Il rischio dell’indifferenza
La diserzione dalle urne, però, non è neutra. In democrazia, non votare equivale comunque a prendere una posizione — spesso a favore dello status quo. E se da un lato è legittimo astenersi per scelta consapevole, dall’altro quando l’astensione è frutto di apatia o ignoranza indotta, è un segnale di malessere collettivo.
In un Paese dove la precarietà dilaga, i salari stagnano e la cittadinanza è un processo faticosamente lungo da ottenere per i non nati in Italia, l’assenza di mobilitazione sui temi referendari racconta una frattura profonda tra le istanze sociali e la partecipazione democratica.
Un referendum fallimentare: urge una riflessione
Il fallimento dei referendum dovrebbe spingere a una riflessione profonda, non solo tra i promotori e i partiti, ma nell’intera società civile. Serve una nuova cultura della partecipazione, capace di rianimare il dibattito pubblico e ricostruire fiducia. Servono media capaci di informare con serietà e istituzioni pronte ad ascoltare. Soprattutto, serve restituire al voto — qualunque voto — il peso e la dignità che merita.
Perché una democrazia dove si vota sempre meno non è solo una democrazia stanca. È una democrazia in crisi. E se non ce ne accorgiamo adesso, potremmo pagarne il prezzo troppo tardi.