Pechino – Nella giornata del 21 maggio, il Partito comunista cinese ha annunciato, durante lo svolgimento della prima delle due giornate di riunione plenaria delle due Assemblee parlamentari, la volontà di imporre ad Hong Kong una propria legge a tutela della sicurezza nazionale in grado di sanzionare secessione, atti terroristici, interferenze straniere, secessione ed eversione contro lo Stato.
La decisione è arrivata per mezzo di una comunicazione del vicepresidente del Comitato permanente del Congresso nazionale del Popolo, Wang Chen e diventerebbe subito operativa con la sua aggiunta all’Allegato 3 della Costituzione locale di Hong Kong: la Basic Law.
Nella situazione politica attuale, la legge supererebbe lo scrutinio dell’Assemblea legislativa istituendo nella città un Ufficio per la sicurezza nazionale di Pechino, senza tutte le autorizzazioni che normalmente dovrebbero essere richieste al Governo locale.
Le novità della decisione
La decisione è arrivata durante la cerimonia di apertura del Congresso nazionale del Popolo, la cui importanza è per molti aspetti legata più alla liturgia cerimoniale che alla politica. Si tratta di uno dei momenti più importanti del calendario civile cinese, dove sono attesi nella capitale i circa tremila delegati da tutta la Cina per decidere dell’indirizzo politico futuro e in cui si tengono grandi parate tra piazza Tian an Men e la grande Sala del Popolo.
Già questo segna un punto di rottura con il passato, in quanto la comunicazione non è arrivata come di consueto dal Consiglio legislativo di Hong Kong (come previsto al momento del trasferimento della sovranità dal Regno Unito alla Cina nel 1997), ma direttamente dal Governo centrale di Pechino. Inoltre, la legge risulta particolarmente insidiosa e pericolosa per i giovani militanti filodemocratici, in quanto permetterà di ridurre in silenzio i moltissimi dissidenti.
La maturazione della decisione
Il sistema che relaziona Hong Kong alla Cina è molto complesso e caratterizzato da una serie di compromessi. Dopo la restituzione dell’Isola da parte del Regno Unito, aveva prevalso il principio “Un Paese, due sistemi”, una formula che sintetizzava un duplice concetto: da un lato veniva affermata l’unicità della Cina come soggetto politico, dall’altro si concedeva che all’interno di un territorio sottoposto a una sovranità unica potevano esistere delle aree amministrate secondo un differente ordinamento istituzionale e con un diverso sistema economico.
La disposizione del principio di sicurezza nazionale era prevista nella Basic Law, ma non era stato mai votato a causa dell’opposizione popolare. Già nel 2003 in più di 500 mila scesero in piazza quando ci fu un tentativo di votarla nel Consiglio legislativo.
Periodicamente poi i cittadini di Hong Kong erano scesi in piazza quando avevano visto le ingerenze della Cina farsi sempre più aggressive, fino a sfociare nelle grandi proteste di piazza dell’anno scorso. Queste ultime, trasformatesi in vera e propria guerriglia urbana, avevano provocato forti risentimenti nel Governo centrale di Pechino.
Ad influire maggiormente sulla decisione di Pechino, è stata l’incertezza economica legata alla pandemia di Covid-19 che ha portato a un’altra svolta epocale: la decisione di non fissare un target di crescita economica per il 2020, un evento che non accadeva dal 1990.
Riportare l’attenzione sul fronte di Hong Kong, potrebbe essere quindi anche un diversivo attuato da Pechino per distogliere l’attenzione sulla non rosea situazione economica. Inoltre, a settembre sono previste le elezioni dell’Assemblea legislativa in cui i candidati democratici potrebbero avere la meglio, rendendo impossibile la ratifica della legge.
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Le reazioni interne e internazionali
Subito dopo l’annuncio, il Civil Human Rights Front, il gruppo che si era già mobilitato contro la legge sulle estradizioni in Cina nel 2019, si è messo al lavoro per organizzare una vasta mobilitazione.
Al contrario la governatrice Carrie Lam, presente a Pechino per il Congresso nazionale del Popolo, ha sottolineato il proprio sostegno alla leggeaffermando che si adopererà per farla promulgare al più presto. Dagli USA si è levato un coro bipartisan che ha visto uniti Democratici e Repubblicani nel condannare la Cina per questa nuova ingerenza nei confronti della libertà e democrazia dell’Isola e nel proporre una proposta di legge per imporre sanzioni contro funzionari e istituzioni cinesi. Il presidente Donald Trump ha promesso che risponderà in “maniera dura” a qualsiasi tipo di ingerenza.
Anche Taiwan è intervenuta nella questione, probabilmente per paura di essere il secondo obiettivo cinese dopo Hong Kong, chiedendo di evitare nuove “grandi turbolenze” e definendo sbagliato incolpare le influenze esterne sui separatisti e la stabilità degli assetti regionali. L’Ue ha chiesto formalmente a Pechino di rispettare l’autonomia dell’Isola, mentre una nota congiunta di Regno Unito, Australia e Canada ha espresso profonda preoccupazione.
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