Il terremoto del 1980 – Tornai su a spegnere il televisore

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Di lì a tre giorni avrei compiuto 8 anni. Era Domenica sera. Mamma aveva preparato un “occhio di bue” per cena. Avevo iniziato a mangiare l’albume girando intorno al tuorlo che avrei gustato solo alla fine dopo averlo straziato con dei pezzetti di pane. Avrei reso il piatto, a fine pasto, anche quella volta, una tavolozza di Van Gogh. Giallo ocra sparso ovunque.

All’improvviso il tavolo iniziò a tremare e così tutto il resto. Mia madre corse con mio fratello per mano e mi urlò di seguirla. Scendemmo le scale rapidamente insieme a tutti gli altri che avevano spalancato le porte delle loro case, ma giunta davanti al portone mi ricordai che non avevamo spento il televisore; così, tra la disperazione di mia madre che mi urlò di tornare indietro, rifeci tutte le scale in su, scontrandomi con i condomini dei piani più alti che nemmeno si accorsero di me.

La porta era aperta. Mia madre aveva pensato solo a scappare e a metterci in salvo. Spensi il televisore e allegramente e fiera di me, scesi nuovamente giù dove trovai tutti seduti sull’aiuola che divideva il parco in due corsie. Mia madre mi rimproverò amorevolmente. Tutti parlavano di “terremoto”. Cos’era il terremoto? Non avevo mai sentito prima quella parola. L’unica cosa che sapevo era che stranamente eravamo tutti in pigiama per strada. Qualcuno disse che i palazzi posti l’uno di fronte all’altro si erano “baciati” nei piani alti come se fossero stati di gomma da masticare e si fossero ripiegati mollemente andando l’uno incontro all’altro.

Nel frattempo arrivò mia zia, “a signurina”, quella che viveva con mia nonna, l’unica donna adulta che guidava. Arrivò con la sua Fiat 850 bianca targata NA 531724, quella che aveva acquistata dal compare Zeno della porta accanto (almeno così mi ricordo). Quell’auto divenne la nostra casa per diversi giorni. Mamma corse su a prendere coperte e scarpe e insieme a zia e a nonna andammo nella “terra di Arcangelo” dove altre famiglie si erano già accampate con le loro auto.

Vivemmo in cinque in auto, non ricordo bene per quanti giorni. Di certo, oltre tre perchè il mio ottavo compleanno lo trascorsi in auto. Mia madre, nonostante tutto, riuscì a farmi avere ciò che desideravo. I regali li ricevevamo solo all’Epifania (tanto quelli li pagava la Befana!) e il giorno del nostro compleanno; quell’anno, per il mio compleanno, avevo chiesto a mamma la bambola Candy Candy che rimase con me in auto, “terremotata” anche lei.

“Terremotati”, così fummo definiti per molto tempo. Mio fratello, nella “terra di Arcangelo” trovò un amico di giochi. Si chiamava Lino. Era pallido e magro come mio fratello. Due alici che correvano tra le auto dei “terremotati”. Mio fratello, e così pure Lino, si beccò i pidocchi, anzi le uova dei pidocchi. Un’altra novità. Cos’erano i pidocchi?  Un’altra sventura? Per fortuna che tra i “terremotati” c’era la signora Luisa che al mattino con un thermos portava latte caldo a tutti i bambini.

Quando ritornammo a casa trovammo le pareti del salotto e della camera da letto lesionate. Anche la scuola era inagibile, ma, a ben pensarci, lo era anche prima del terremoto. Le nostre aule erano i locali sottostanti la chiesa di Don Filippo e vi si accedeva con una scala di alluminio priva di ogni sostegno sulla quale marciavano orde scatenate di ragazzini dai 6 ai 10 anni.

Le nostre nuove aule furono dei container di alluminio freddi e tristi. Il terremoto ci aveva “inscatolato” come sgombri, ma l’anno successivo ottenemmo il nostro riscatto: una vera scuola “antisismica” realizzata interamente su un unico piano. Ci dissero che sarebbe stata intitolata ad Enrico De Nicola, primo presidente della Repubblica e nostro concittadino.

Oggi 23 Novembre 2020. Sono trascorsi 40 anni da allora. Tra qualche giorno di anni ne compirò 48. Un nuovo “terremoto” si è abbattuto e sta scuotendo da mesi le nostre vite. Mia madre vive con la zia “signorina” in un comune a pochi chilometri da casa mia, di fronte alla “terra di Arcangelo” dove ci accampammo quell’anno, ma io non posso raggiungerla a causa delle misure restrittive e perché avrei paura di fare del male a lei e alla zia se fossi “asintomatica”.

Non conoscevo la parola “terremoto” e ahimè! l’ho imparata; non conoscevo la parola “Covid” e ahimè! l’ho imparata. Sarebbe stato meglio restare all’oscuro del significato di certi termini, ma mia madre, oggi ottantaquattrenne, alla sera, al telefono, mi rassicura che passerà anche questa.

 

Maria Pia Nocerino

(RIPRODUZIONE RISERVATA)

 

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